La mia convinzione che il nazionalismo “dal-volto-umano” potesse beneficiare i destini delle ex-repubbliche sovietiche si è infranta domenica 14 ottobre. Sono sempre stato convinto che l’impiego delle categorie politiche occidentali, ivi incluso il trasversale ricorso schedante il nazionalismo, fosse poco indicato, se utilizzato in maniera speculare, per descrivere le vicende dell’Est Europa.
[ad]La convinzione, nata due anni fa durante il mio soggiorno nei Balcani, rafforzata dalla breve permanenza in Ungheria e parzialmente confermata dai primi mesi di stanza ucraina, è stata sottoposta due settimane fa al primo test importante. Guardando alla storia recente dei Paesi in questione, il nazionalismo, elegantemente chiamato patriottismo da chi sino a ieri lo osteggiava ed oggi desidera garantirgli legittimazione (vedi le celebrazioni dei 150 anni in Italia), era stato infatti il motore dei cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni. S’era fatto interprete delle rivendicazioni identitarie costrette sin lì sotto l’auge delle varie confederazioni pan-qualcosa (Unione sovietica) e aveva sconfitto il conservatorismo dei partiti di sinistra (principalmente comunisti) che sino a quel momento avevano assunto le redini di un’eredità che sembravano non voler lasciare. Ciò generava quindi un’inversione dei poli, o quantomeno delle categorie politiche, garantente l’etichetta del progressismo ai partiti identitario-nazionalisti e tacciante specularmente di conservatorismo i post-qualcosa partiti comunisti barricati a difesa della loro rendita di privilegio. Ribaltava antiteticamente insomma il deputato uso delle categorie politiche vigenti in Europa Occidentale.
A causa di ciò, mi ero sempre battuto insistentemente contro chi, non conoscendo il nuovo volto dell’Est Europa o pur conoscendolo, si ostinava ad impiegare categorie non applicabili e legittimava le proprie posizioni con l’abusata opinione “il nazionalismo va sempre criticato ed evitato”. Domenica 14 ottobre però, invitato dal tepore di un autunno che sembrava proprio non voler arrivare, ho deciso di concedermi una rilassante passeggiata nel centro cittadino di Lviv. Inconsapevole della concomitante ricorrenza delle celebrazioni per il settantesimo anniversario dell’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), con grande sorpresa, invece di imbattermi nelle volte e nei merletti adornanti i mitteleuropei edifici cittadini, ho incrociato sul mio percorso sbraitanti cortei capitanati da militari in divisa. E così il volto del nazionalismo, ossia la forza progressista a capo dei maggiori cambiamenti avvenuti dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si è rivelato assumere connotazione completamente diversa. Ho avuto infatti la possibilità di guardarlo in faccia e ciò mi ha profondamente disgustato. Oltre ai rulli di tamburo e a slogan scanditi da un megafono e liturgicamente ripetuti dai pretesi celebranti, l’immagine creantemi maggior sgomento è stata l’interminabile fila di giovani in mimetica che, al fine di compiacere i propri superiori, faceva a gara a chi levava più alte le bandiere e a chi berciava più forte gli sbalorditivi incitamenti. Il bagno di folla garantito loro da una fitta schiera di vecchietti, memori delle decantate gesta dell’UPA, li ha accolti in una delle principali piazze cittadine.
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[ad]Dopo aver ascoltato gli stagionati discorsi delle presunte autorità che usavano la freschezza dei volti dei più giovani per rinverdire sentimenti stantii, ho deciso fosse abbastanza e mi sono preparato così al congedo. Non appena girati i tacchi vedo però un corteo ancor più vasto, più rumoroso, più aitante, dirigersi verso la piazza. Mi precipito quindi verso il suddetto e, nell’avvicinarmi, inizio a scorgere una distesa di teste rasate, bomber neri e bandiere recanti simboli quali la croce celtica e la svastica. Lascio il corteo sfilarmi davanti e vedo una marea di giovani in borghese tra le sue fila. Contando il dato che riporta il disinteresse del 97% dei giovani per la politica e considerando la minuta schiera di giovani attivisti presenti durante le adunate di piazza dei principali partiti politici (esclusi quelli che ancora oggi barattano la propria fame con i trenta euro a giornata offerti da Yanukovich per rendere pompose le foto e i video delle “oceaniche” piazze), ciò ha dato ancora più sgomento alla rilassante passeggiata che mi ero ripromesso. Pensare infatti che la nuova generazione sia seminata in campi dove abbondano concimi quali svastiche e croci celtiche, mi ha portato a concludere che, se è questa la maschera dei cambiamenti promessi dal progressismo identitario, tanto vale conservare lo status quo. Dopo essere rientrato a casa, dove fortunatamente nessun bercio della manifestazione ancora in corso riusciva a giungere, ho acquisito la freddezza mentale necessaria e ho provato a contestualizzare ciò che era accaduto nel poco domenicale pomeriggio che mi era stato, in qualche modo, sottratto. Ho convenuto, nonostante il suggerimento di evitare distinguo quando si parla di nazionalismo riservatomi da due amici-spettatori, che ciò a cui avevo assistito era la frangia estrema della bandiera nazionalista e che esisteva invece, così come avevo avuto modo di constatare in precedenza, un nazionalismo moderato in grado di seguitare la strada del progressismo intrapresa negli ultimi due decenni. Ossia un nazionalismo “dal-volto-umano” che, a seguito delle dissoluzioni di fine Novecento, era stato capace di scrollare di dosso ai propri connazionali la pesante etichetta che sotto i vari pan-qualcosa tentava di ritardare la loro uscita dall’incolpevole stato di minorità. Un nazionalismo capace insomma di far combaciare il proprio perimetro con la definizione che si dà di progressismo,“inclinazione sostenente la necessità di accelerare il progresso, cioè l’evoluzione della società nell’ambito politico, sociale ed economico”. Ciò mi ha parzialmente acquietato. Necessito tuttavia nuove aquinate prove per convincermi sia effettivamente così.