Quattro anni fa Barack Obama veniva eletto trionfalmente come 44° presidente degli Stati Uniti. Nel suo discorso al Grant Park di Chicago e in quello dell’inaugurazione a Washington prometteva per l’ennesima volta “Hope and Change”, e giurava che l’America sarebbe presto cambiata, in meglio.
[ad]Quattro anni dopo siamo tutti attaccati alle televisioni e a internet per capire se stasera l’America confermerà la sua fiducia al 44esimo o preferirà eleggere un 45esimo Presidente.
Ma guardiamo al “record” di Barack Obama. Ed è pessimo.
Quattro anno dopo dicevamo il debito pubblico statunitense è quasi triplicato, soprattutto grazie a soldi pubblici investiti nel fallimentare stimulus dell’economia (da quando è lo Stato a creare economia e posti di lavoro?) e nel “takeover” governativo della sanità; il prezzo della benzina è salito alle stelle e la disoccupazione è rimasta per lunghi mesi sopra l’8% per poi scendere, pochi giorni prima di queste elezioni, al 7,9%.
Barack Obama promise quattro anni fa che laddove non fosse riuscito a dimezzare il debito pubblico e a portare la disoccupazione sotto il 5% nel suo primo mandato, non si sarebbe ricandidato. L’ennesima promessa mancata?
Il Presidente giustifica la sua ricandidatura dicendo che no, non è colpa sua se non è riuscito a realizzare quanto aveva promesso quel giorno a Grant Park. Afferma invece che la colpa sia del Congresso, e in particolare di John Boenher e della maggioranza repubblicana che ostacolerebbe qualsiasi “cambiamento”. Quando dice questo, lo fa sapendo di mentire.
Mentre è chiaro agli occhi di tutti come il “gridlock” e le forti divisioni a Washington non siano positive per il Paese, è altrettanto vero come questa “contrapposizione” ideologica fra partiti sia stata causata principalmente dall’atteggiamento tenuto dal Presidente e dalla sua maggioranza nei primi due anni di mandato. Sì perché per quanto Obama sia bravo a ricordare agli elettori dell’eredità lasciatagli da Bush o del fatto che i repubblicani controllano ora la camera bassa del Congresso, dimentica che per i primi due anni di mandato ha avuto una super-maggioranza sia al Senato (con 60 voti) che alla Camera dove leader di maggioranza era l’italo-Americana Nancy Pelosi.
Per quale motivo il Presidente ora predica la necessità di essere “bipartisan” se lui per primo ha rifiutato qualsiasi dialogo con l’opposizione sulla riforma sanitaria, sul “debt ceiling”, sulle tasse al tempo della sua super maggioranza?
Mitt Romney non è a mio parere il miglior candidato per la Presidenza ma è sicuramente una persona capace e preparata. Soprattutto ha ben chiaro il senso morale del libero mercato. Quando un’impresa stava per fallire con Bain Capital la prendeva, la risanava con modi coriacei e dimostrava concretamente più pietà nel salvare un’azienda nel lungo termine piuttosto che trascinarla agonizzante per salvaguardare per qualche mese alcuni posto di lavoro.
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Il senso morale che anche i repubblicani avevano in gran parte perduto nel secondo mandato di George W. Bush, nel corso del quale fu concepito il piano di salvataggio da 800 miliardi di dollari. Un segnale di accondiscendenza alla regola del too big to fail, che è servito in gran parte a rendere più odiosa la grande finanza agli occhi di milioni di americani. Peggio ancora ha comunicato il messaggio etico che le imprese come le banche possono prendersi grandi rischi, fallire per incompetenza eppoi chiedere allo Stato di mungere il contribuente per tirarli fuori dai guai.
Così si è alimentato il “moral hazard”, l’incentivo a essere poco virtuosi sul mercato a danno ovviamente di coloro che nel mercato combattono lealmente e, soprattutto, sulla pelle del contribuente-consumatore.
Obama ha proseguito su questa falsariga col bailout del settore auto, che magari gli farà vincere l’Ohio ma che ha indebolito le fondamenta dello spirito di sana ed equa competizione di mercato. È qui che si nota tutta la discontinuità della campagna e della leadership di Romney. Il former governor del Massachusetts in queste presidenziali mette nel conto addirittura di perdere, ma ha riportato al centro dell’agenda politica la libertà economica al di fuori dalle interferenze dello Stato, dalle alte tasse al pari dai sussidi.
[ad]Un’idea sociale forte, americana e differente dagli ultimi 8 anni di politica in America.
L’intera sua storia personale dimostra come ne capisca di Economia e in questo periodo di stagnazione, è una delle poche cose che contano. Da governatore del Massachusetts ha risolto una crisi occupazionale ereditata dal suo predecessore e riportato il budget in pareggio; da presidente del Comitato Olimpico di Salt Lake City nel 2002 è riuscito ad evitare un fallimento annunciato e da imprenditore ha costruito una azienda di successo: la Bain Capital.
I suoi detrattori lo accusano di essere un uomo della finanza, contrario alla classe media, di ignorare le necessità di metà degli americani (il famoso 47% ndr) e di essere un estremista religioso. Mai la realtà potrebbe essere più distante da quanto affermano.
Mitt Romney è la scelta giusta per l’America. Dopo il sogno di “hope and change”, mai realizzato, è il tempo del pragmatismo; nella speranza che il popolo Americano sappia andare oltre le semplici impressioni e votare davvero con una visione rivolta al futuro.