[ad]Le recenti affermazioni del MoVimento 5 Stelle alle ultime consultazioni elettorali, di cui il prodigioso risultato alle elezioni regionali in Sicilia non è che l’ultimo tassello, hanno portato alla ribalta nelle discussioni politiche il tema della “forma partito”.
Indubbiamente, anche a causa degli innumerevoli scandali che stanno affondando alcune tra le principali formazioni della Seconda Repubblica, oggi l’immagine dei partiti è fortemente appannata, e questo, unito all’affermazione politica di chi propugna la sostituzione del sistema dei partiti con forme del tutto differenti di organizzazioni politiche o addirittura con la democrazia diretta, non può che far riflettere su quali debbano essere le cause di questo declino tutto italiano di questa tipologia di organizzazione politica.
Come spesso è meglio in questi casi, è opportuno partire dalla definizione. Consultando il dizionario on-line www.dizionario-italiano.it, si trova:
partìto [par’tito]
1 s.m. – associazione di cittadini per lo svolgimento di una comune attività politica
2 s.m. – decisione, alternativa
3 s.m. – occasione di matrimonio
4 s.m. – {araldica} scudo diviso in due parti uguali da una linea verticale passante per il centro
La definizione di partito, quindi, è sicuramente molto generale, e di per sé non ha connotazione né positiva né negativa.
Affermare che una struttura politica basata sull’associazionismo dei cittadini sia di per sé negativa o dannosa è quindi una frase priva di senso, e spinge ad indagare ulteriormente sul perché il senso comune e l’esperienza quotidiana associno al termine “partito” (peggio ancora se associato all’aggettivo “tradizionale”) un significato ormai deteriore.
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[ad]Sicuramente vi è un primo livello di indignazione e sdegno legato a tutti quegli episodi di autoconservazione quando non addirittura di malaffare che hanno coinvolto in Italia diverse formazioni politiche.
Si va da fenomeni di collusione della malavita organizzata con la politica – quando non addirittura di una vera e propria penetrazione della prima nella seconda – ad atti di autoprotezione che, seppure non illegali, risultano particolarmente odiosi in momenti di grave crisi economica.
Non stupisce che formazioni politiche più interessate all’autoconservazione attraverso la perpetuazione dei loro costosissimi privilegi oggi incappino nella disapprovazione e nel disgusto della popolazione.
Vi è tuttavia un fenomeno di sfiducia più sottile ma non per questo meno importante.
I fenomeni sopra descritti, infatti, di per sé non sono sufficienti a screditare i partiti in quanto tali, se non nelle parole di qualche demagogo: mostrano invece la degenerazione di un sistema di per sé sano e funzionante, come dimostrano i numerosi esempi degli altri Stati democratici.
Ciò che al contrario potrebbe essere in grado di logorare in maniera forse definitiva il rapporto tra cittadinanza e la forma-partito di associazionismo politico è la progressiva perdita di capacità dei partiti di definire e – tentare di – costruire dei modelli sociali il più possibile completi e coerenti, modelli in cui il cittadino potesse identificarsi e provare senso di appartenenza nella vita quotidiana e non solo nella vita politica.
Come spesso accade, anche se è solo con il senno di poi che l’analisi riesce a ricostruire legami altrimenti forse troppo labili, la politica si è dimostrata figlia della filosofia, e così come i grandi modelli omnicomprensivi di Hegel hanno via via lasciato spazio a formulazioni dell’esistenza più destrutturate, le ideologie politiche novecentesche si sono dissolte creando un vuoto di potere tuttora incolmato, costringendo i partiti ad una vera e propria traversata del deserto, alla ricerca di un’identità a cui aggrapparsi che procede quasi alla cieca.
Si è passati dal partito deduttivo al partito induttivo.
Come è noto, la deduzione è quel processo del ragionamento umano che parte da postulati e principi primi e, attraverso una serie di rigorose concatenazioni logiche, procede verso determinazioni più particolari attinenti alla realtà tangibile. L’induzione, al contrario, è un procedimento che partendo da singoli casi particolari cerca di stabilire una legge universale.
La contrapposizione piuttosto che la sinergia tra questi due metododologie di pensiero ha segnato la storia della filosofia, e indubbiamente anche nella politica, o meglio nel rapporto tra politica e cittadinanza, le differenze tra questi due processi hanno pesanti conseguenze.
Un partito deduttivo possiede una propria visione – il più possibile omnicomprensiva – del mondo, ha consci i propri obiettivi a lungo termine ed ha chiaro il ruolo di ciascun elemento della vita quotidiana nella realizzazione del modello di cui si fa portavoce. La linea politica di un partito deduttivo è basata sul raffronto tra le scelte da intraprendere su un tema specifico in rapporto all’obiettivo generale che si propone di realizzare; la scelta del momento potrà quindi essere sub-ottimale, ma la migliore nel contesto del quadro complessivo.
Un partito induttivo, al contrario, procede dal particolare al generale offrendo un approccio il più possibile concreto alle decisioni immediate lasciando che siano queste a determinare l’indirizzo a lungo termine. L’assunto su cui si basa l’azione di un partito induttivo è proprio che decisioni ottime localmente determinino il miglior percorso politico possibile a livello globale. Inoltre, anche dal punto di vista del consenso e del supporto, si presuppone che la sequenza di decisioni ottimali sopra descritta riesca a massimizzare l’appoggio della cittadinanza verso il partito.
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La realtà, tuttavia, è ben diversa.
Da un punto di vista prettamente politico, perseguire obiettivi ottimali localmente non garantisce l’ottimalità sull’obiettivo generale. Lo studio dei sistemi complessi e la ricerca delle loro configurazioni ottimali è una branca che ha ormai abbandonato la matematica pura per tuffarsi nella biologia e nell’economia: la politica è colpevolmente in ritardo nell’utilizzo di strumenti adeguati per l’approccio ai problemi complessi, ma il modello generale è indubbiamente lo stesso.
Perdere di vista, quindi, il quadro d’insieme per perseguire una serie di risultati locali significa rinunciare alla ricerca della migliore strada politica.
[ad]Oltre che dal punto di vista politico, il partito induttivo risulta perdente – e questa a prima vista potrebbe essere una sorpresa – anche da quello del consenso. Se infatti è vero che sui problemi specifici i partiti induttivi possono ottenere maggiori risultati e contestualmente un maggior apprezzamento, non è da sottovalutare la possibilità, limitata ai partiti deduttivi, di riuscire a vendere un brand globale e omnicomprensivo alla popolazione, un brand ad alto tasso di fidelizzazione in grado di trasformare il partito in “comunità”. Allo stesso tempo, la capacità di ricondurre ogni propria scelta politica ad un obiettivo di più alta portata è in grado di proteggere l’azione politica del partito deduttivo da casi di – presunta o reale – incoerenza, laddove un partito induttivo non può godere di una simile protezione.
Se i vantaggi sono tutti così a favore dei partiti deduttivi, perché esistono partiti induttivi? Perché i partiti politici italiani si sono evoluti – o per meglio dire involuti – dalla deduzione all’induzione?
In realtà è difficile che si tratti di una scelta volontaria. La scomparsa delle ideologie sociali che hanno caratterizzato il XX secolo, senza che vi fossero nuovi grandi movimenti da abbracciare, ha costretto i partiti a navigare a vista, a procedere a tentoni alla ricerca di una propria vocazione senza alcun appoggio ideologico.
L’incapacità quindi di potersi ricondurre ad un impianto sociale di ampia portata e di offrire ai propri simpatizzanti un modello politico “di vita” sta lentamente uccidendo la credibilità dei partiti ancora di più degli scandali e del malaffare, perché consiste nell’effettiva perdita di significato della forma-partito in tutte le sue declinazioni. La crisi dei partiti è legata a doppio filo al declino dei modelli sociofilofofici del passato e all’incapacità non solo politica ma in ultima analisi intellettuale di individuare nuovi stimoli in tale campo. Né i processi induttivi paiono riuscire in se stessi a condurre a quelle necessarie generalizzazioni in grado di generare nuove correnti di pensiero di ampio spettro.
Sotto la spinta di un crescente populismo, è quindi necessario capire che la crisi dei partiti nasce da un inaridimento intellettuale prima ancora che politico, e che solo attraverso formulazioni – anche ardite, anche sbagliate – di pensiero sociale innovative e inclusive sarà possibile arginare tale deriva.