Domenica 14 novembre 2010 si sono svolte a Milano le primarie del centrosinistra in vista delle elezioni comunali del 2011.
Gli sfidanti per la corsa a Palazzo Marino erano quattro: l’architetto Stefano Boeri (sostenuto dal PD), il costituzionalista Valerio Onida (sostenuto da parte del PD e dall’IdV), l’avvocato Giuliano Pisapia (sostenuto da parte del PD, SEL, FdS) ed il fisico Michele Sacerdoti (senza appoggi partitici ufficiali). Ad imporsi è stato Pisapia con 30.533 preferenze, seguito da Boeri con 27.055, Onida con 9.036 e Sacerdoti con 719.
I votanti totali sono stati 67.499, in calo rispetto all’analoga competizione del 2006.
Il tema principale che emerge dall’esito delle primarie, è naturalmente la sconfitta di Boeri, candidato sostenuto dal PD locale.
Il Partito Democratico, espressione della maggioranza del centrosinistra, non è riuscito, dopo i precedenti di Firenze e della Regione Puglia, a convincere il proprio elettorato della bontà della candidatura da esso sostenuta.
[ad]La vittoria di Pisapia su Boeri è stata quindi salutata, in una guerra tutta interna al centrosinistra, come una vittoria della cosiddetta sinistra radicale sull’establishment del Partito Democratico, provocando le dimissioni di alcuni esponenti locali di tale partito (fonte La Repubblica).
Ha tuttavia senso parlare di vincitori e vinti in questa situazione? Ha senso che dei dirigenti propongano le proprie dimissioni a causa di un’elezione primaria?
A differenza delle elezioni reali, nelle quali chi perde ha il diritto ed il dovere di fare opposizione al vincitore, le primarie servono a stabilire chi, all’interno della stessa parte politica, dovrà avere il compito di sfidare gli avversari. Per fare un paragone sportivo, le primarie sono assimilabili ai temibili trials statunitensi, le selezioni che determinano la composizione della squadra olimpica a stelle e strisce.
L’interesse comune di tutti gli organizzatori dovrebbe pertanto essere ottenere la squadra migliore, la squadra più competitiva per gareggiare e vincere contro il centrodestra.
In quest’ottica, risultano prive di senso le dimissioni della dirigenza milanese del Partito Democratico, allo stesso modo in cui sono fuori luogo e ingenerosi gli attacchi della sinistra radicale al PD, attacchi che, ben lungi dal limitarsi alla felicità per la vittoria del proprio esponente, auspicano ulteriori rovesci all’area democratica secondo una logica non già di alleati in concorrenza, ma di veri e propri nemici (è noto lo slogan che vede nel PD null’altro che una copia sbiadita del PdL, per l’appunto il “PDmenoL”).
I cittadini chiamati a votare alle primarie, tuttavia, hanno espresso una preferenza tra nomi e programmi accettati indistintamente, pur ciascuno con le proprie preferenze, da tutto il centrosinistra. La disposizione dei partiti intorno ai candidati non è e non dovrebbe essere veicolante per il voto. Prova ne sia il fatto che, mentre partiti che si fanno bandiera della politica dal basso erano incentrati su un unico candidato, il partito notoriamente più d’apparato forniva sostenitori a tre candidati su quattro, pur avendo fornito l’endorsement ufficiale ad uno solo di questi.
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[ad]In cosa consiste la sconfitta per il PD, quindi? Nel fatto che è stato preferito un altro candidato? No di certo: meglio eventualmente vincere con Pisapia che perdere con Boeri, visto che Pisapia ha dimostrato alle primarie di avere più chance.
La sconfitta del PD è allora programmatica? I cittadini, in fondo, hanno scelto un programma ed un candidato sui cui SEL, e non il PD, aveva messo il proprio marchio. Eppure la regola di base delle primarie è che chi perde sostiene chi vince: logica conseguenza della cosa è che le varie opzioni debbano essere sufficientemente ben viste da tutte le parti in causa da evitare sfilamenti post-sconfitta. Il programma di Pisapia, pur non essendo il programma del PD, è comunque un programma che il PD riteneva sufficientemente positivo da poter essere preso a programma ufficiale della coalizione.
La sconfitta del PD sta quindi nel voler vedere la situazione come una sconfitta, ovvero nell’immagine del Davide SEL che atterra il Golia PD per la seconda volta dopo le primarie pugliesi, e ponendo così le basi per altri colpi a Bologna, Torino e Napoli nei prossimi mesi. Dimenticando che le primarie servono a trovare il candidato migliore, non quello promosso da questo o quel partito. Ignorando la differenza tra le primarie e le vere elezioni.
A questo punto, perché non evitare del tutto le candidature ufficiali di partito? Perché non lasciare liberi dirigenti, militanti e simpatizzanti di mettere a disposizione strutture, tempo e mezzi ciascuno per il candidato che ritiene più degno? Perché, nell’ottica di realizzare una vera politica dal basso, i partiti non restano alla porta ad ascoltare, limitandosi a fornire i mezzi affinché la società possa esprimere al meglio le proprie indicazioni?
Matteo Patané
(Blog dell’autore: Città Democratica)