Professione comunicare. Proforma-Pustetto a confronto
Proforma: un gruppo di giovani creativi di Bari, esplosi con le campagne elettorali di Emiliano (2004) e Vendola (2005) e poi passati a seguire Bertinotti, i DS e ancora Emiliano. Pustetto: una “veterana di centinaia di campagne elettorali”, dall’Italia agli USA e ritorno, scrive il Corriere della Sera.
Dino Amenduni, responsabile di Emilab e collaboratore di Proforma, e Maria Bruna Pustetto a confronto. Sulla comunicazione politica nel 2009. Cioè manifesti e Facebook. Candidati e spin doctor. Internet e tv. Berlusconi e Obama. L’INTERVISTA
PROFORMA (Dino Amenduni)
Partiamo dal progetto Emilab. Che cos‘è?
[ad]«E’ nato un anno fa come unità specialistica per occuparsi della gestione web della campagna di Michele Emiliano a Bari. In sostanza in questi mesi ho staccato da Proforma e faccio il coordinatore di Emilab, che è un laboratorio che serve a mettere in rete i talenti di giovani di Bari. Siamo partiti da un gruppo di dieci persone sotto i 30 anni e poi ci siamo allargati con un meccanismo di passaparola qualificato, basato su fiducia e competenze. Ora l’unità conta 150 persone e siamo un po’ il cuore pulsante della campagna Emiliano. Più che essere uno strumento per la campagna, è la campagna che è servita a mettere a punto un progetto nato da subito con prospettive a medio-lungo termine».
Sembra di sentire il modello di coinvolgimento e segmentazione dell’elettorato che ha fatto la fortuna della campagna di Obama.
«Ci siamo mossi dalle esperienze internazionali di successo, in particolare da luglio a novembre scorsi abbiamo seguito giorno per giorno la corsa di Obama. Che ha delegato gran parte della sua campagna a forme di organizzazione spontanea, dal basso. La sua è stata più una vittoria organizzativa che comunicativa. I laboratori, la rete, i social network servono a questo: più come strumenti per interconnettere e proporre contenuti che come veicoli di comunicazione in senso stretto».
America-Italia. Che cosa c’è stato lì che non può esserci qui?
«Qui c’è diffidenza. Spesso quando provi a proporre qualcosa di originale subentra la diffidenza, il “ma tanto su Facebook non sposti un voto”. Il che in senso stretto magari è vero, ma se tu metti centinaia o migliaia di persone in condizione di poter disporre di un pacchetto di strumenti crei uno spazio per chi non può fare campagna direttamente per un candidato. Non generi consenso spostando direttamente voti. Ma questo non rassicura chi ti chiama perché vuole essere eletto. Però i risultati che stiamo ottenendo potrebbero stimolare una riflessione su questo, sarà una questione di tempo».
E la cara vecchia televisione? Quanto pesa il messaggio tv in Italia, anche visto il mono/duopolio Rai-Mediaset? E soprattutto, i politici lo sanno?
«L’influenza della televisione nel generare consenso è ancora troppo forte, anche se non so dirti se venga prima l’uovo o la gallina. In altre parole, forse in regime di mono/duopolio qualunque strumenti sarebbe dominante: con un presidente del Consiglio che possiede tre reti e controlla il cda delle altre tre è difficile capire se il problema stia nel mezzo televisivo o in come viene gestito. Resta il fatto che finché non cambia il sistema non ci sono alternative alla rete, è l’unico strumento che potrà esprimere forme di partecipazione. La tv è un mezzo passivo, Internet è bidirezionale e richiede uno sforzo superiore. Ci vorrebbe uno sforzo di mesi o anni per stimolare una nuova ‘opinione pubblica’ che si organizzi attraverso la rete».
Ma fare il consulente o il comunicatore politico vuol dire vendere un prodotto-candidato o anche, che so, mettere in comunicazione eletti ed elettori?
«Questo dipende molto dalle volontà del committente. Nel nostro caso ci sono i precedenti di Michele Emiliano nel 2004 e di Nichi Vendola nel 2005. Emiliano in particolare ha sdoganato un certo atteggiamento tipico del centrosinistra, secondo cui i consulenti di comunicazione politica sono il demonio perché assomigliano al marketing politico di Berlusconi».
Ricordo una gustosa cronaca di Fabio Martini sulla Stampa durante la campagna politiche 2008, Realacci rivendicava a sé e Veltroni il ruolo di “annusatori della società italiana”.
«Anche Veltroni è caduto in questo luogo comune, poi abbiamo visto com’è andata a finire. Ritengo che ci sia bisogno di un processo di elaborazione, più che vendere un candidato significa mettere in fila le parole-chiave, i concetti su cui insistere e quelli su cui stare attenti. Questo è un lavoro che un politico può svolgere fino a un certo punto, perché non ha il distacco del consulente di comunicazione politica».
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[ad]Quindi siete imprescindibili.
«Sì, e la sinistra in Italia vive questo passaggio con un certo travaglio. Le regole del gioco sono cambiate, l’opinione pubblica è diventata post-ideologica e i politici, come i detersivi, devono essere bravi a entrare nelle case degli italiani. Il professionismo in questo campo va vissuto con la massima tranquillità: siamo tecnici al servizio della politica».
Chi è che entra meglio nelle case degli italiani?
«Su Berlusconi ormai si è detto tutto, è abbastanza lapalissiano. Sui media tradizionali comunque non riesco a vedere grandissimi esempi: Franceschini è partito bene ma ha perso un po’ la spinta iniziale, Di Pietro ha scelto un posizionamento politico identitario e tiene quello, ma alla fine avrà dei problemi a espandere il proprio elettorato. Nichi Vendola sta comunicando abbastanza bene, paga una certa impopolarità della parola ‘sinistra’ mentre ‘libertà’ è fin troppo inflazionata e quindi rischia di perdere significato».
E i comunisti? Come la vedi la campagna elettorale di Ferrero-Diliberto (se la vedi)?
«Ecco, è difficile vedere grosse differenze di contenuto con Sinistra e libertà, ma credo che le comunichino peggio, favorendo indirettamente il progetto di Vendola che si presenta meglio. Anche se c’è l’insistenza su alcuni concetti, la falce e il martello, l’essere comunisti, la spinta identitaria su certi luoghi e certi valori in una chiave anti-Berlusconi».
Voi di Proforma siete sempre stati attivissimi sul piano locale ma non molto presenti in campagne nazionali.
«In realtà abbiamo curato la campagna di Bertinotti per le primarie dell’Unione, poi le affissioni per le primarie Pd, i filmati della famiglia Spera per i Ds nel 2006, però è vero, non c’è stato ancora il politico di grido in battaglia».
A proposito di politici di grido, perché è riuscita la rimonta a Berlusconi nel 2006 e non a Veltroni nel 2008? Cosa c’è stato di diverso nel modo di presentarsi all’elettorato?
«Secondo me la boutade sull’Ici ha spostato da sola non meno di 3 punti, ed è un genere di cosa che il Pd non sarebbe mai stato in grado di fare. Poi Veltroni ha comunicato bene ma non benissimo, ha commesso alcuni errori grossi, tipo la storia del “principale esponente dello schieramento a noi avverso”. E poi c’era un disastro di governo, a fronte del quale la comunicazione politica poteva fare poco».
A me sembra che la campagna di Veltroni fosse quasi una campagna conservativa, come se il Pd fosse in vantaggio e non dovesse invece recuperare.
«Sì, quando in realtà doveva andare a erodere fette di consenso. C’è stata troppa poca aggressività, magari non era nelle corde di Veltroni: già Franceschini lo vedo più sarcastico, riesce a essere più corrosivo e ficcante, anche se paga l’assenza di una proposta politica globale».
C’è uno spiraglio per il centrosinistra in televisione?
«In Italia si gioca con regole abbastanza inusuali, ma dovremmo accettare l’idea che il berlusconismo non è più un’opzione da accettare o rifiutare, ma è il terreno di confronto. Bisognerebbe impararlo prima di decidere se rifiutarlo o meno, e attaccarlo sui suoi refrain. Se invece si continua a dire “le regole non mi piacciono” non si va da nessuna parte».
Dalla tv ai manifesti. Qual è il loro ruolo? Perché si fanno?
«Noi a Bari abbiamo di fatto rinunciato alle campagne affissioni, mentre per dire il candidato avversario, Di Cagno Abbrescia, ha proposto nove campagne affissioni con tre agenzie diverse, due con doppio teaser. È stata una scelta secondo me assurda ma soprattutto muscolare. Il motivo vero per cui i manifesti possono essere fatti nel 2009 è una ragione di muscoli, di far vedere che si è vivi e forti. Noi abbiamo scelto un altro approccio, con due affissioni molto semplici: in una lo slogan della campagna, “Bari non torna indietro”, e nell’altra una foto del candidato e la scritta “il sindaco”».
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[ad]E perché altri li usano così tanto?
«Secondo me per ignoranza, perché con quei soldi si potrebbero fare molte altre cose. Ci si lega a vecchie categorie concettuali per cui il manifesto è essenziale. Ora le nuove frontiere sono altre, la rete, gli sms, che hanno un rapporto costo/efficacia molto migliore dei manifesti».
Qual è la campagna di cui sei più orgoglioso?
«Ho 25 anni, lavoro da poco in modo sistematico a campagne elettorali, ma comunque la campagna di Vendola del 2005 è stata unica. Però anche questa di Emiliano del 2009 è stato qualcosa che almeno in Puglia non ha mai avuto eguali almeno dal punto di vista della produzione dei contenuti: oltre 100 video su YouTube, cartoni delle pizze, lounge bar elettorale, iniziative di pulizia dei muri contro i manifesti abusivi, gare di creatività sulla città. E se Michele Emiliano vincesse con 10-12.000 voti disgiunti il dato sarebbe inequivocabile: e cioè che ha comunicato molto meglio dei partiti che lo sostengono. Comunque su questa siamo fiduciosi, sia per il primo turno sia per l’eventuale ballottaggio».
Nonostante la calata di Berlusconi di domenica?
«C’è una mitologia, nata dopo le regionali in Abruzzo e Sardegna, secondo cui ogni apparizione di Berlusconi sposterebbe 5 punti. Non so se in due ore di discesa a Bari abbia spostato tanto, mi sembra anzi che abbia mostrato una certa superficialità, potrebbe aver spostato l’1 per cento».
E invece la campagna di cui sei meno orgoglioso, quella che ha portato meno frutti?
«E’ brutto dirlo, ma la campagna per il Pd pugliese che Proforma ha seguito per le Politiche 2008. Pur non essendo stata brutta o inefficace ha spostato molto poco, è stata corretta dal punto di vista del messaggio con un attacco forte alla Lega, ma pur essendo stata gradevole non ha sortito effetti».
PUSTETTO (Maria Bruna Pustetto)
Partiamo dal mestiere del consulente politico. In un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti sul Secolo XIX, nel 1990, disse di essere l’unico in Italia. Diciannove anni dopo, conferma?
«Ci sono molti che fanno diverse cose, io mi occupo esclusivamente di questo e forse continuo in questo senso ad essere l’unica».
Ma fare il consulente politico vuol dire solo vendere un candidato o c’è di più?
«Guardi, durante la campagna elettorale si vende il candidato. E’ inutile raccontarci che si fanno strategie sul medio-lungo periodo, la campagna elettorale è così ridotta come tempi tecnici che ormai si lavora sempre sui 30-40 giorni. Si lavora in emergenza, la campagna è sempre una crisis management, e se le cose poi vanno bene si può costruire un’immagine sul medio-lungo periodo. Ma in campagna elettorale, per il candidato in Italia l’importante è vincere e poi si vedrà».
Quali campagne sta seguendo in questo momento?
«Sto facendo due cose abbastanza semplici, sto lavorando per un candidato sindaco a Cremona e poi per le Europee per Elisabetta Gardini. Mi occupo di tutto, quello che fa la differenza è la capacità di usare gli strumenti e di trovare il mix giusto, scadenzando nel tempo gli eventi, gli spot, il sito internet, Facebook, il blog. Tutto dev’essere coordinato, tutto deve avere una logica che si rifà alle caratteristiche del candidato. Nessuna campagna elettorale è uguale a un’altra, non mi ricordo di aver mai ripetuto cose già fatte, neanche un santino».
Facebook e in generale la rete. Si dice che molti politici italiani abbiano una certa diffidenza verso questi mezzi. E’ vero che non spostano voti direttamente ma possono essere utili per mettere in rete persone e contenuti?
«Certo, assolutamente sì. Io sono una che non ama la carta nell’elettorale, specie coi candidati giovani è importante usare le nuove tecnologie. Ci sono delle resistenze da parte dei candidati perché sono legati alla carta, ancora vogliono la faccia da manifesto. Ma le cose cambieranno, in un futuro neanche troppo lontano non ci saranno più i tabelloni elettorali».
Passando da un opposto all’altro: perché si fanno ancora i manifesti? A cosa servono?
«Per quanto mi riguarda la funzioen dei manifesti è sempliecmente autoreferenziale per i candidati, non credo che un manifesto sposti di un millimetro il comportamento di un elettore. Casomai rafforza e gratifica quelli che sono già orientati su un candidato, ma non è che se sono di un’altra opinione vedo magari i manifesti di Vendola e decido di votare per lui. La carta non cambia proprio niente».
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[ad]Che cosa cambia, allora? La televisione.
«Beh, la televisione resta inarrivabile, poi in Italia con la legge sulla par condicio la comunicazione politica in tv è molto limitata, ma io dico sempre ai miei candidati: se anche vi invitano nella televisione più piccola e sperduta del mondo, in un paesino, con solo una telecamera, a fare un intervento di trenta secondi andateci. Meno manifesti e più televisione, questa è la mia regola. Così come meno carta e più Internet. Anche se molti candidati pensano che la rete sia una cosa usata solo da ragazzi, in realtà il mezzo ha una diffusione molto più penetrata di quanto i candidati immaginino. Per loro è una cosa da ragazzi, ma non è così. Si può modulare il proprio messaggio sulle nuove tecnologie».
Se pensa a campagne di questo momento sul web, che cosa le viene in mente?
«Vedo moltissimi siti dei candidati, ormai tutti i candidati hanno fatto il sito perché è diventato quasi come un manifesto. Però di siti ‘svegli’, interattivi, non ne vedo molti ancora. Ma perché i candidati non hanno questa sensibilità a cogliere le potenzialità della rete. E poi ci sono i banner, ma non li trovo così interessanti, non li utilizzerei per un mio candidato».
E tornando ai manifesti? Qualche esempio interessante di queste ultime settimane?
«A livello nazionale si vede il grande vuoto di Forza Italia, ora Pdl. Non c’è, ed è la prima volta da che io mi ricordi che Berlusconi non è presente con i 6×3, non si era mai visto. Mentre ci sono stati Casini e gli altri che hanno fatto una campagna abbastanza importante. Alcune cose per me restano un po’ incomprensibili, però c’è dietro una professionalità, non ci sono i più manifesti artigianali di qualche anno fa. Lo sforzo dei partiti di fare qualcosa di più elaborato c’è».
Tranne Berlusconi…
«Secondo me il premier ha ritenuto che la sua azione di governo andasse a colmare e potesse essere sufficiente a coprire questa mancanza di questo tipo di comunicazione».
Nel ‘92 disse alla Stampa che i calzini bianchi fanno la differenza tra chi sa cosa vuol dire andare in televisione e chi no. Se si guarda intorno oggi, chi vede coi calzini bianchi e chi senza?
«Sa, non ci sono molti calzini bianchi in giro, se non in ambito locale. I leader dei grossi partiti non li mettono, e se li mettono lo fanno come elemento seduttivo, usandoli scientemente per fare presa su certe fasce di elettorato, è un target anche quello».
Fuor di metafora, chi vede bene in tv?
«Franceschini lo vedo molto debole, perché lui è una persona debole, quindi non può essere un personaggio forte. E mi sembra più debole anche rispetto a Veltroni, che quantomeno ci metteva molta volontà, si vedeva che era uno molto concentrato su sé stesso. Invece Franceschini mi sembra più superficiale, non è uno che fa training, preferisce essere ‘nature’, un po’ ruspante, ma non sempre questo paga. E in questo momento un po’ di tecnicismo ci vorrebbe».
Quindi è vero che molti politici di centrosinistra tendono a non accettare il professionismo al servizio della politica e la consulenza?
«Certamente, per esempio sto osservando Debora Serracchiani a Udine, lei indossa un giubbino che è quello che indossava il giorno dell’intervento all’assemblea del Pd e l’ha usato anche per i manifesti. Ed è veramente misero, non trasmette forza o carattere. C’è questa tendenza all’artigianalità pensando che abbia una forza di seduzione, cosa che io non credo».
Pensa che questa artigianalità si sia fatta sentire anche nella campagna di Veltroni l’anno scorso?
«Beh no al contrario, Veltroni ha ecceduto nella comunicazione l’anno scorso».
Però lui e Realacci rivendicarono il fatto di non essersi rivolti a consulenti ma di aver fatto tutto in casa.
«Primo, non crederò mai che non si siano rivolti a consulenti, perché non è nella natura di Veltroni. Li avranno usati per interposta persona. E se non ha avuto successo è perché lui era debole, perché non ha saputo ottimizzare il passaggio da Prodi a lui, ha fatto degli errori macroscopici, e forse si è sopravvalutato. C’è stata una sovrapposizione con le tecniche della campagna di Obama, ma Veltroni non ha la personalità. Per reggere a una comunicazione come quella di Obama bisogna avere una personalità forte, la comunicazione va sempre tarata su quello che si è».
Quindi conferma quello che disse qualche anno fa, che nessun consulente politico può vincere a dispetto del suo candidato?
«Assolutamente sì, anche se invento la campagna migliore del mondo. Ed è qualcosa che vale soprattutto se non ho un candidato modesto, come nel caso di Veltroni».
Berlusconi è un candidato modesto? O è un caso a sé?
«E’ un caso unico e irripetibile. Ora stiamo vedendo Berlusconi, poi ci sarà un giorno in cui non lo vedremo più e non ci sarà mai un altro Berlusconi».
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[ad]E’ consulente di sé stesso.
«Certamente è consulente di sé stesso, è uno che si fa la campagna elettorale da solo. E per un consulente sarebbe una personalità difficile da gestire, uno che dice ‘so tutto io’ e praticamente è vero».
Tra le campagne che ha curato, quella di cui va più orgogliosa?
«Quella di Burlando in Liguria nel 2005».
E quella di cui va meno orgogliosa?
«Quella di un candidato messo in lista alle Europee diversi anni fa, era un industriale ed era convinto che sarebbe diventato un parlamentare. Quindi ho lottato con lui a dirgli che uno sconosciuto candidato alle elezioni europee non sarebbe mai stato eletto: alla fine ha preso poche migliaia di voti, e credo fossero tutti di amici miei».
Nel ‘92 dichiarò alla Stampa: “Bossi non ha futuro. Ha un’immagine terribile”. Diciassette anni dopo, c’è qualcosa oltre l’immagine?
«Direi proprio, lui è un leader vero, l’elemento che contraddistingue un leader da un non-leader è la presenza o meno dei seguaci. Quella battuta me la sono rimangiata pochissimi giorni dopo, perché ho capito che chi ha seguaci è un leader vero. E lui ce li aveva allora e ce li ha ancora oggi, una cosa che nessun partito ha. Berlusconiani di ferro per passione credo non esistano, invece leghisti per passione ce ne sono. Quindi promosso a pieni voti».