Recensione: “Un nuovo contratto per tutti”, di T. Boeri e P. Garibaldi
[ad]Digitando su Google il termine “flessibilità” associato a quello di “ lavoro”, si ottengono 2.310.000 risultati: in pochi anni questa parola è divenuta pressoché onnipresente, dai giornali ai discordi da bar, tirata da una parte o dall’altra a seconda del colore politico, dipinta alternativamente come la panacea di tutti i mali del nostro mercato del lavoro o il moderno strumento di oppressione dei “padroni”. Tuttavia, parlare di un problema è cosa differente dal conoscerlo, impresa che si rivela quanto mai ardua in un’arena così “calda”, dove ci si contestano definizioni come cifre. Tito Boeri e Pietro Garibaldi, con “Un nuovo contratto per tutti”, sono una voce fuori dal coro, proponendo una discussione pacata e chiarificatrice sul mercato del lavoro, scevra da convenienze ideologiche.
A ben guardare, l’evento di questi anni non è tanto costituito dall’aumento dell’occupazione, quanto dalla nascita di un mercato del lavoro secondario, parallelo a quello primario (cioè dei lavoratori a tempo indeterminato) e a questo quasi impermeabile: solo il 10% dei lavoratori “flessibili” riesce a trasformare il proprio contratto in uno a tempo indeterminato. Il loro salario, a parità di altre condizioni, risulta essere tre quarti di quello di chi ha un contratto a tempo indeterminato: significa che, alla fine della loro vita lavorativa, gli verrà corrisposta una pensione assolutamente insufficiente. Considerando che le aziende tendono a sostituire, per ovvie ragioni di convenienza, i lavoratori a tempo indeterminato che vanno in pensione con quelli a tempo determinato, finirà anche la crescita dell’occupazione, esaurito il turn-over. E il paese smetterà di crescere sotto ogni punto di vista.
L’ineguaglianza di questo sistema “duale” si presenta anche quando il lavoro non c’è: in Italia il sussidio di disoccupazione (la cui durata, comunque, è minima) è concesso solo al 20% dei nostri disoccupati (accanto al 75 della Francia e all’80 della Germania), e solo a chi ha già maturato almeno due anni di contributi: in sostanza ai soli occupati stabili, di per sé già iper-protetti dal rischio di licenziamento. Gli strumenti straordinari sono messi in campo solo per i grandi gruppi industriali e non esiste un programma di lotta alla povertà a livello universale; con i livelli di stipendio medi, difficilmente un lavoratore atipico può costruirsi da solo una sorta di paracadute per passare da un periodo di attività all’altro (e in Italia il tempo di attesa tra due occupazioni è molto lungo); ben si comprende perchè il rischio di essere poveri in una famiglia di lavoratori atipici sia quattro volte la media nazionale, secondo i dati presentati da Boeri e Garibaldi nell’audizione dello scorso 16 dicembre al Senato.