Recensione: «I reporter di guerra», di M. Càndito
Il racconto in prima linea del giornalismo in zona di guerra. Ma anche l’analisi disincantata delle storture della comunicazione e del potere.
Ci sono libri di storia e libri di storie. Al plurale. I reporter di guerra, sottotitolo Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet, appartiene alla seconda categoria.
Perché è un testo un po’ a metà tra un manuale del mestiere, un saggio mediologico e un diario di bordo: e sono i ricordi di viaggi, episodi, dialoghi e immagini a reggere i fili di una storia che è anche cronaca, quella delle guerre e insieme dei suoi osservatori mai troppo privilegiati. I suoi testimoni.
È per dire che se a scrivere I reporter di guerra fosse stato uno storico, o anche un corrispondente di guerra che non c’avesse messo dentro la sua vita e le sue battaglie, il libro sarebbe molto diverso da come lo leggiamo. Non avremmo forse tenuto negli occhi quegli alberghi un po’ scapestrati di Buenos Aires e Beirut, quelle marce per gli interminabili sentieri afghani, le tracce quotidiane di giornalismo fatte di grande coraggio e piccole meschinità.
E però nelle pagine non manca la storia con la esse maiuscola, non mancano le strategie e i contesti geopolitici nei quali si sono animate le tensioni e i conflitti dal Sud America all’Indocina (passando per Africa, Europa, Medioriente: Ruanda, Algeria, Kossovo, Libano, Iraq); non manca il racconto delle gesta di reporter più o meno improvvisati che si trovano a contatto con i grandi momenti del mondo, da Hemingway il «ballista» e la sua cronaca gonfiata dello sbarco in Normandia al Luigi Barzini leggendario della Prima guerra mondiale (ma c’è pure il Barzini crepuscolare della Seconda); dal precoce William Russell, le cui crude cronache dalla Crimea per il «Times» gli costarono il rimpatrio, al Peter Arnett glorioso in Vietnam e Iraq poi scivolato sulla montatura giornalistica dell’operazione Tailwind. Non mancano le storie dei giornalisti che per raccontare la guerra ci sono morti (Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello, Enzo Baldoni sono solo le ultime righe di un elenco lunghissimo). Non manca l’analisi, sconfortata e sconfortante, di una comunicazione che è sempre più veloce e muscolare ma sempre meno attenta alla correttezza e alla profondità.
Tra i tanti motivi per i quali «I reporter di guerra» è un libro da leggere, ed è scorrevole pur con le sue quasi settecento pagine, si direbbe che dalle sue pagine c’è da imparare per tutti. Per i giornalisti, i cui margini di libertà sembrano assottigliarsi sempre più; per gli aspiranti giornalisti, che tra tante piccolezze e civetterie si trovano di fronte esempi di grande valore; per i direttori e gli editori, metti mai che si accorgano che il giornalismo non è solo stampare novanta pagine di articoli per poterne ospitare metà di pubblicità (e viceversa); per chi non è né un giornalista né vuol diventarlo, ma chiuso il libro si sentirà forse più triste. Ma sicuramente più ricco.
Autore: MIMMO CÀNDITO, da una vita alla «Stampa» per cui è inviato, commentatore di politica internazionale, corrispondente di guerra. Ha seguito per decenni conflitti in tutto il mondo e li ha raccontati sul suo giornale. Presidente di Reporter senza frontiere, insegna giornalismo all’Università di Torino ed è direttore de «L’indice dei libri del mese».
Titolo: I REPORTER DI GUERRA. STORIA DI UN GIORNALISMO DIFFICILE DA HEMINGWAY A INTERNET, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2009
Pagine&Prezzo: 698 pp., € 20,00
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