Queste primarie sono state primarie anomale. Nate in maniera complicata, estremamente combattute sul filo delle regole, delle forme, della stessa decisione se farle o non farle. Gli stessi due candidati che si sfidano sono asimmetrici. Renzi si presenta in nome di se stesso, concentrando tutta l’attenzione su di sé e contornandosi al massimo di singole personalità (i tanto discussi Giorgio Gori e Davide Serra ad esempio). Bersani invece si presenta da subito come il rappresentante di un partito, di un gruppo, di una comunità. Renzi sembra dire “Guardatemi!”, il suo è un “Adesso!” che può realizzarsi soltanto se c’è fiducia in lui, se nella sfida decisiva delle primarie i voti per lui riusciranno a superare quelli per Bersani. Invece Bersani si presenta come parte di qualcosa di più grande di lui, di un processo, all’interno del quale le primarie sono solo una tappa e nemmeno così rilevante.
In realtà proprio questa contrapposizione rende interessanti queste primarie. A confrontarsi non sono due candidati che propongano diverse soluzioni o idee all’interno di un quadro condiviso. A confrontarsi sono due visioni del mondo, due modi di intendere la politica. In cosa consistono? Sarebbe facile rifarsi alla vulgata del senso comune che vuole Bersani come esponente della “vecchia politica” e Renzi come artefice del rinnovamento. Ma le cose sono, come sempre, un po’ più complesse.
I dirigenti della generazione che Renzi vorrebbe “rottamare” hanno molte colpe. Ma non sono quelle che Renzi semplicisticamente addita. Non hanno la colpa di essere vecchi (peraltro non mi risulta che nessuno abbia proposto di rottamare Napolitano o Mario Monti per la loro assai veneranda età…). Hanno colpe politiche. La colpa di aver avvallato un’unificazione monetaria con modalità che mostrano ora tutti i loro limiti. La colpa di aver lasciato che i partiti perdessero il loro radicamento di massa, rendendo la politica una discussione spesso asfittica e autoreferenziale (l’antipolitica nasce da partiti deboli, che perdono il loro rapporto con le persone). La colpa di aver trascurato la formazione delle nuove classi dirigenti, che veniva assicurata con ben altro livello nei partiti della Prima Repubblica. Le colpe di quella classe dirigente sono, in altre parole, causate più dalla mancanza di politica che dal suo eccesso. Politica intesa come partecipazione, cultura, dibattito, non opposti però artificialmente ai partiti (in quella fantomatica entità chiamata “società civile”), ma anche nei partiti e attraverso i partiti.
I partiti devono tornare ad essere di massa e non d’élite. Nei partiti si deve tornare a discutere. I partiti devono tornare ad essere qualcosa che rappresenta davvero delle idee, degli interessi e delle visioni del paese con cui i poteri economici devono tornare a fare i conti.
Non è questa la visione di Renzi. Renzi propone, in forma rinnovata e comunicativamente efficace, le stesse idee di cui la sinistra si faceva portatrice negli anni Novanta, idee che vengono ora abbandonate non solo in Italia ma in tutto il mondo. Sarebbe non un segno di rinnovamento, ma l’ennesima dimostrazione di arretratezza se l’Italia si attardasse sui vecchi luoghi comuni del blairismo, invece di muoversi in sintonia con un’agenda della sinistra internazionale che mette sempre di più all’ordine del giorno i temi della regolamentazione della finanza, del ritorno all’autonomia della politica.
Votare Bersani non significa condonare tutto a quella classe dirigente. Tutt’altro. Significa dare la possibilità alle nuove generazioni che militano nel partito di muoverle una critica politica. Ridare dignità alla politica significa rispettare innanzitutto le forme della politica. L’anno prossimo ci sarà il congresso del Partito Democratico. Quella sarà l’occasione per fare questa discussione e scegliere una strada per il futuro. Capire cosa il Partito Democratico deve essere e come deve orientarsi sui grandi temi che caratterizzano questa fase difficile della nostra storia.
Renzi rifiuta questa discussione. Dice di essere diverso, dice di essere il nuovo. Per questo comunicativamente fa di tutto per far emergere questa discontinuità. Ma c’è da chiedersi se a questo sforzo comunicativo corrisponda qualcosa di reale. Io credo di no. Non serve citare il fuorionda registrato da Radio 105 (http://video.corriere.it/fuorionda-renzi-se-non-vinco-porto-miei-amici-parlamento/73abed44-3540-11e2-a6ed-6f1dca7ec717). Basta il ricordo che l’invettiva contro il “teatrino della politica” era già una prerogativa di Berlusconi (della cui tanto sbandierata “rivoluzione liberale” non si è poi vista traccia). Vent’anni di anatemi contro “la vecchia politica” e cose del genere dovrebbero averci insegnato che con le grida non si cambia l’Italia.
Non ci servono politici vecchi o giovani. Ci serve una buona politica. E l’unico modo per sperare di averla in futuro è iniziare fin da ora a parlarne, evitando discussioni sterili. Bersani non è perfetto, è criticabile sotto diversi punti di vista, ma rappresenta la possibilità di una rinascita della politica, che coincida anche con una rinascita del nostro paese. Certo, per questo non basterà Bersani da solo. Servirà il contributo e l’impegno di tutti. Ma scegliere Bersani significa tenere aperta questa possibilità, la possibilità di restituire progressivamente ad ognuno la possibilità di determinare, attraverso la politica, il proprio destino. E di non concepire questo destino come contrapposto a quello della propria comunità, ma come ad esso legato.
Non è un progetto facile. Renzi chiede ai suoi elettori di votarlo “Adesso”. E poi? Bersani invece chiede un voto che sia l’inizio di un percorso di interessamento alle sorti della cosa pubblica, ciascuno nei modi in cui sarà in grado di farlo: come cittadino, come simpatizzante, come militante, come politico attivo. Superare l’isolamento della politica, farle perdere la sua autoreferenzialità non è qualcosa che cala dall’alto ma presuppone, oltre alle necessarie riforme (l’idea di un “riformismo dall’altro” è stato un altro dei limiti della sinistra degli anni Novanta), anche un impegno diffuso.
Oppure si può sempre continuare a parlare della “casta”, dei “costi della politica” e della “rottamazione”. Ma siamo sicuri che serva davvero a cambiare il nostro paese?