Il 20 ottobre 2010 è stato pubblicato su Reporters sans frontières il rapporto annuale sulla libertà di stampa nel mondo per il periodo 01/09/2009 – 31/08/2010.
L’Italia è stata classificata al 49° posto, la stessa posizione rispetto al 2009, e questo risultato decisamente poco lusinghiero ha immediatamente scatenato polemiche tra coloro che vedono in questo risultato la giustificazione degli allarmi per lo stato dell’informazione nel nostro Paese e coloro che invece contestano una metodologia che ci pone dietro a paesi come Capo Verde, Mali o Bosnia e alla pari con il Burkina Faso.
La posizione del nostro Paese è ancora più grave se confrontata con il resto dell’Unione Europea: siamo infatti al 24° posto su 27, e peggio di noi si classificano solo Romania, Bulgaria e Grecia.
Il giudizio dato all’Italia è netto:
Lo stato della libertà di stampa in Italia, stretto tra bozze draconiane di riforma e minacce della mafia, è molto più preoccupante di quello dei suoi vicini europei. La stretta delle associazioni mafiose sul settore dei media si sta rafforzando e obbliga gran parte dei giornalisti alla prudenza. Il ritorno al potere di Silvio Berlusconi riporta all’ordine del giorno la questione della concentrazione e del controllo governativo dei mass media. La riforma legislativa che vieta la pubblicazione di alcuni atti giuridici è incompatibile con gli standard democratici dell’Unione Europea.
[ad]In che modo RSF è arrivata a formulare questo giudizio? Sul sito è stata pubblicata la nota metodologica dell’indagine: RSF ha semplicemente predisposto un questionario con una serie di domande relative alla libertà di stampa e lo ha inviato ad una platea composta dalle associazioni partner, dai propri corrispondenti, da giornalisti, giuristi, ricercatori e militanti nel campo dei diritti umani. Come in qualsiasi sondaggio, l’identità delle persone contattate non è stata resa pubblica allo scopo di garantire risposte non condizionate.
Il questionario è stato messo on-line, così come la metodologia di valutazione delle risposte, che prevede una scala che stabilisce nel valore zero il massimo della libertà e può estendersi fino ad un numero infinito di punti (vi sono domande, come quella sul numero di giornalisti uccisi con l’implicazione dello Stato, che non prevedono un punteggio massimo).
I detrattori della validità del report basano il lor punto di vista su due categorie di obieizioni: da un lato viene infatti messo in discussione il metodo di raccolta dei dati, dall’altro la pertinenza e l’esaustività delle domande contenute nel questionario rispetto all’ambizioso obiettivo per cui sono utilizzate.
L’obiezione relativa al primo punto è evidente: un questionario compilato da Santoro conterrà risposte ben diverse da uno compilato da Belpietro, e l’anonimato dei giornalisti contattati impedisce, secondo questa linea di ragionamento, di valutare l’imparzialità del campione scelto. Addirittura alcuni giornalisti potrebbero volutamente peggiorare l’immagine del proprio Paese per suscitare l’attenzione della comunità internazionale o lo scalpore dell’opinione pubblica.
Le critiche relative al secondo punto sono altrettanto chiare: sono stati presi in considerazione tutti i fenomeni in grado di limitare la libertà di stampa? Vi sono domande ambigue, che chiedono di conteggiare fenomeni il cui rapporto causa-effetto con la libertà di stampa non è certo?
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[ad]In realtà, un’analisi delle domande consente di fornire alcune risposte chiarificatrici.
In primo luogo il questionario proposto da RSF è in continua evoluzione: se da un lato questo rende impossibile un confronto immediato tra le risposte di un anno e quelle del precedente (ad esempio il punteggio dell’Italia è sceso da 12,14 nel 2009 a 15,00 nel 2010, ma al tempo stesso il questionario è passato da 40 a 43 domande), dall’altro è garanzia di un costante lavoro di aggiornamento e integrazione da parte degli autori allo scopo di fornire di volta in volta le domande più appropriate e complete per mappare in maniera esaustiva la libertà di stampa nel mondo.
Il questionario di Reporters sans Frontières si presenta diviso in capitoli:
- Violenze fisiche
- Numero di giornalisti uccisi, imprigionati, attaccati fisicamente o minacciati, e ruolo dell’autorità
- Minacce indirette, intimidazioni e accesso alle informazioni
- Censura ed autocensura
- Controllo dei media
- Pressioni giuridiche, economiche e amministrative
- Internet e nuovi media
Come si vede, i capitoli coprono quindi in maniera capillare gli aspetti per cui ad un giornalista può essere impedito di svolgere il proprio lavoro o ad un cittadino può essere impedito di ricevere informazione. All’interno di ogni capitolo le domande sono esaustive, chiare e senza sovrapposizioni.
La maggior parte dei quesiti, inoltre, fa riferimento a dati oggettivi e verificabili: il numero di giornalisti uccisi o torturati a causa della propria attività non può differire in base alle opinioni dell’intervistato. La presenza e la dimensione dei gruppi editoriali privati è un dato certo e numerico. Le pressioni da parte di forze militari sono fatti documentabili, così come i poteri delle authorities.
Le domande in cui l’opinione dell’intervistato può diventare rilevante sono relativamente poche: 13, 17, 21, 22, 23, 26, 27, 30 e 32 sono i casi più evidenti. Prendendo il caso italiano, l’allontanamento di alcuni giornalisti da un telegiornale è ascrivibile ad un licenziamento ingiustificato? L’assenza o la minimizzazione di alcune notizie su alcune testate è classificabile come censura, o magari come autocensura? Queste domande, e probabilmente alcune delle altre, introdurranno quindi una certa varianza nei questionari, ed è proprio per questo che RSF rivolge le proprie domande ad una molteplicità di soggetti.
A favore del lavoro di Reporters sans Frontières vanno quindi la completezza e la pertinenza delle domande presenti nel questionario, la trasparenza nella pubblicazione del questionario stesso unito alla metodologia di valutazione e la scelta di limitare il più possibile le domande che coinvolgono l’opinione degli intervistati.
A tempo stesso, tuttavia, si sente la mancanza di alcuni dati che avrebbero consentito analisi maggiormente veritiere ed approfondite: lo stringato commento associato ad ogni Stato non consente di identificare con certezza la composizione del punteggio conseguito impedendo di comprendere e verificare nel dettaglio le pecche di ciascuno Stato, e la mancata pubblicazione della varianza dei questionari rende complesso stabilire se all’eventuale mancanza della libertà di stampa si accompagni anche una corretta percezione della medesima.
In generale, si può quindi concludere che il Press Freedom Index di Reporters sans Frontières, seppure non possa offrire garanzie di precisione assoluta a livello del punteggio conseguito da ciascun Paese, sia però in grado di fornire accurate valutazioni sulle condizioni generali di salute della libertà di stampa.
Se pertanto la coabitazione dell’Italia nella medesima posizione del Burkina Faso è un dato che può essere preso con le molle, deve destare invece preoccupazione la grande distanza che ci separa dalla vetta della classifica, un distanza culturale prima ancora che legislativa.
Matteo Patané
(Blog dell’autore: Città Democratica)