La nuova scuola di formazione politica del PD, un’occasione per un’analisi sulle concezioni della figura del “politico”
Roma, via Laurentina: l’8 aprile prenderà ufficialmente il via Officina Politica, la scuola di formazione del PD. Come si legge in un comunicato del Partito Democratico, dal mese prossimo partirà un master, organizzato dal PD e tenuto da dirgenti del partito ed esperti dei temi trattati, articolato su tre macroaree: cultura politica, istituzioni, e comunicazione.
Secondo quanto afferma Annamaria Parente, responsabile della formazione politica nella segreteria nazionale,
dopo tanti anni riprendiamo l’esperienza di una scuola strutturata per sostenere il partito nella sua crescita e per operare in modo concreto nella formazione e nel ricambio della classe dirigente.
[ad]In effetti, la similitudine con le Frattocchie, la scuola di formazione del vecchio PCI, è sotto gli occhi di tutti; proprio questo apparente ritorno al passato, tuttavia, può servire a denotare in maniera chiara la posizione del Partito Democratico su uno dei temi più controversi e accesi degli ultimi anni, ovvero l’approccio alla formazione politica e di conseguenza alla figura del politico professionista.
La fine della Prima Repubblica, il disvelamento delle grandi reti clientelari costruite intorno ai palazzi del potere ed il progressivo deterioramento della classe dirigente hanno fatto aumentare l’insofferenza verso la politica ed i politici, etichettati a torto o a ragione come “casta” chiusa in sé stessa e lontana dal vivere comune della popolazione.
Berlusconi fu il primo a cogliere l’umore popolare su questo tema così delicato e a offrire una sua ricetta: con abile strategia mediatica il Cavaliere trasmise al grande pubblico l’idea del cittadino prestato alla politica, presentando sé stesso per primo in questa veste e candidando persone provenienti al di fuori dell’esperienza dei partiti nelle proprie liste. Il cortocircuito tra il cittadino-elettore e il politico portava quindi all’eliminazione di tutta la gavetta necessaria per l’assunzione di un ruolo di rilievo nazionale, il passaggio dal circolo alla circoscrizione, dal comune alla provincia fino alla regione, eliminando quindi la figura ormai esecrabile del politico di professione e al tempo stesso trasformando il ruolo stesso del politico ad un sogno accessibile a tutti.
Se questo è stato il prodotto pubblicizzato da Berlusconi al tempo della sua entrata in politica, la realtà si è dimostrata ben differente. La Legge 270/2005, il famigerato “Porcellum”, ha eliminato le preferenze dirette durante l’operazione di voto, mettendo le candidature nelle mani dei partiti come mai lo erano state in passato: nel partito personalista berlusconiano, il partito del “chiunque può fare politica”, le possibilità di candidatura si sono inesorabilmente ridotte al compiacimento del padre-padrone, che secondo il proprio arbitrio determina chi può accedere al dorato mondo della casta e chi no.
Il sogno offerto da Berlusconi si è rivelato un inganno perché altro non poteva essere: la figura del cittadino prestato alla politica, offerta come criterio di normalità nel confronto con i nostri vicini europei, si è dimostrata il grimaldello con cui la mediocrità è entrata nelle sale del potere e con cui l’incompetenza è stata mascherata da novità. Nella foga di presentarsi come il nuovo rispetto ai politici professionisti, e quindi appetibile all’elettorato, Berlusconi ha troppo spesso tralasciato la ricerca della competenza nelle persone di cui si è via via circondato, riducendo i suoi parlamentari e a volte persino i ministri dei suoi Governi a semplici persone-immagine, slogan pubblicitari di un messaggio destinato alla mera perpetuazione del potere.
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[ad]La prima vera reazione organizzata all’evoluzione della classe politica, in grado di offrire un tentativo di sintesi tra rinnovamento e competenza, è stata offerta in maniera strutturata e organica dal MoVimento 5 Stelle. Il giovane partito, ispirato dal comico genovese Beppe Grillo, ha per primo intuito nelle nuove tecnologie e nell’intelligenza distribuita la necessaria quadratura del cerchio per fornire a ciascun cittadino gli strumenti per partecipare alla vita politica. Con una concezione della partecipazione pubblica quasi come volontariato, ogni esponente del MoVimento dovrebbe essere, nelle intenzioni, immerso in una rete fittamente interconnessa formata da tutti gli aderenti, ciascuno pronto a fornire in tempi rapidi le proprie competenze su qualsiasi tema. L’esponente del MoVimento seduto in un consiglio comunale o in Parlamento altro non sarebbe, quindi, che il terminale umano di una sorta di organismo collettivo costituito dall’intera rete dei partecipanti.
Questa concezione della politica mostra naturalmente pregi e difetti: se da un lato è innegabile che consente di convogliare un gran numero di competenze ad ampio spettro in maniera quasi istantanea in ogni centro nevralgico del potere, dall’altro presuppone per essere realmente efficace una totale uniformità di opinioni all’interno del network, e costituisce forse un’esperienza alienante per l’individuo relegato al semplice ruolo di portavoce della rete alle sue spalle.
Soprattutto, è implicito nella concezione politica del MoVimento 5 Stelle che non sia necessaria una vera e propria formazione specifica sulla politica, sostenendo che sia invece sufficiente essere in grado di risolvere i problemi che la politica deve affrontare. Scompare quindi la figura del politico in quanto tale, dell’amministratore, sostituita nuovamente dal cittadino prestato alla politica. Rispetto al modello berlusconiano la presenza del network supplisce al problema delle competenze, riducendo di fatto a tema secondario la scelta del candidato.
La risposta del PD, che sarebbe facile catalogare come un semplice ritorno al passato, consiste invece – almeno nelle intenzioni – nella rivalutazione della figura del politico attraverso la formazione; essere politici, essere gestori della cosa pubblica non è e non deve essere alla portata di tutti secondo il capriccio di un leader, e la figura del politico che si batte in Aula non può essere sostituita dal semplice portavoce di un’impersonale rete di competenze.
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[ad]Il Partito Democratico scommette quindi sul ruolo, sulla professione si potrebbe dire, del politico, e come in ogni professione la formazione e l’aggiornamento sono fasi indispensabili del percorso lavorativo.
La proposta del PD, di fatto, è avvantaggiata dal momento storico: da un lato gli scandali che si stanno riversando sul premier e che hanno visto coinvolte persone da lui fortemente volute in politica e dall’altro l’ancora scarsa informatizzazione del Paese non possono che far vedere di buon occhio l’idea di una scuola di formazione politica, che permetta la costruzione di una classe dirigente, oltre che competente e preparata sui nodi che la politica deve affrontare e risolvere, in grado di “essere” politica e non solo di “fare” politica.
L’approccio è speculare rispetto a quello del MoVimento: se per i grillini infatti è prioritario incrementare il sapere disponibile nella rete, per il PD al centro dell’attenzione sono le persone. Per il MoVimento è importante che qualcuno sappia cosa fare e che quel qualcuno possa trasmettere e condividere le proprie competenze, per il PD è essenziale dotare la classe dirigente di domani degli strumenti per decidere scientemente in autonomia.
Se queste sono le intenzioni che traspaiono con evidenza dalle scelte del PD, il progetto Officina Politica può essere nei fatti uno strumento in grado di tradurrle in realtà?
Il master si articolerà tra classici incontri e lezioni, incentrati sui tre grandi temi oggetto del corso, sull’analisi di un romanzo contemporaneo (ancora top secret quale sarà), e metodologie di insegnamento più innovative come corsi di yoga e giochi di ruolo. Come già le Frattocchie, Officina Politica vuole essere non soltanto un momento di istruzione, quanto piuttosto un luogo fisico di condivisione di esperienze, di vita in comune e comunicazione sia in senso orizzontale – con gli altri iscritti – che verticale – con il corpo docente.
La scelta dei temi è inoltre quantomai in linea con la figura dirigenziale che il PD immagina di formare: in particolar modo i corsi di cultura politica e comunicazione appaiono improntati alla reale costruzione della figura del politico, lasciando al corso di istituzioni il compito di pensare alle vere e proprie competenze. Proprio il corso sulla comunicazione, che di per sé non “serve” ad un politico in quanto non aiuta nella risoluzione dei problemi quotidiani dei cittadini, distingue appieno la linea programmatica di formazione intesa dal PD da quella del MoVimento 5 Stelle.
L’iniziativa democratica ha i suoi punti di debolezza sulle modalità di accesso ai corsi: se l’apertura ai giovani sotto i 35 anni appare motivata dalla volontà di insistere sulla questione giovanile, se la scelta di avere una quota paritaria tra uomini e donne può essere intesa come un tentativo di valorizzare la partecipazione femminile, la quota di ammessi al corso – 40 – e le modalità di selezione – cooptazione dei segretari regionali – gettano fitte ombre sull’Officina Politica, quasi ridisegnandone scopi e finalità. Ammesso e non concesso che un numero così basso di iscrizioni possa trovare giustificazione in un progetto pilota al primo anno di attività (e allora sarà l’evoluzione temporale dell’Officina a svelarlo), la scelta di accettare nel corso persone solo su segnalazione dei segretari regionali pare delineare una situazione di partenza poco trasparente e meritocratica, dando l’idea di un partito ancora troppo chiuso al proprio interno, di regolamenti di conti tra correnti, di selezioni viziate dal rapporto con le segreterie.
Spetta al Partito Democratico, con le scelte dei candidati, dimostrare che non è così.
(Blog dell’autore: Città Democratica)