La differenza dello staff. Perché ha stravinto Pierluigi Bersani
[ad]L’unità del centrosinistra. Garante della coalizione Italia Bene Comune la definizione del gruppo è stata molto più ampia per Bersani. Il “noi” del segretario includeva il Pd ufficiale, Sel, gli altri candidati, tanto da risultare estremamente efficace la polemica sul “noi” e “loro” utilizzato di frequente nella campagna di Matteo Renzi. In questo ha interpretato al meglio la sua funzione di azionista di riferimento dell’alleanza di centrosinistra, prima ancora che di candidato alla presidenza del consiglio. Ha funzionato, spingendo ancor più all’esterno dello schieramento il bacino di consenso del sindaco di Firenze. Ribaltando a suo favore una sua vulnerabilità. Se agli albori della competizione il segretario del Partito Democratico sapeva di soffrire il confronto fra l’intero elettorato, a causa della preoponderanza in Italia dei voti moderati per il rottamatore, Bersani ha amplificato questo fenomeno. Col tempo è cresciuta la quota di chi auspica Renzi presidente del consiglio, ma si è ridotta in maniera cospicua nell’ambito dei progressisti. Perché, qualora non si fosse capito, a questo giro si vinceva coi consensi di sinistra.
Framing. Per essere un comunicatore molto anomalo (a volte lascia le frasi a metà, non è molto avvezzo ai confronti televisivi, ecc.) sulla cena di fund raising con gli esponenti della grande finanza, Bersani ha inferto un colpo durissimo a Matteo Renzi sulle partecipazioni alle Cayman del suo sostenitore Davide Serra. Da allora e per settimane il sindaco è finito all’angolo ed è diventato nelle associazioni mentali un po’ il candidato delle Cayman.
L’ultimo aspetto è esemplare per osservare specularmente cosa non ha funzionato della campagna del sindaco Renzi:
Campagna negativa. Bisogna dar ragione ai suoi strenui detrattori: oltre la rottamazione si è visto pochino. Specie sotto questo aspetto, decisivo al di là di tanti buoni propositi per vincere le elezioni. In America un leader carismatico e pulito come Barack Obama non si è fatto scrupolo nell’usare con letalità il 47% argument contro Mitt Romney. Bersani ha fatto altrettanto col tema Cayman, avendo ragione dall’elettorato. Renzi si è assestato sulla ridotta dell’irenismo. La rottamazione è riuscita a delegittimare efficacemente il circuito bersaniano, che a dire la verità era diventato molto stretto pure per i gusti del segretario, ma non ha messo in discussione la credibilità della leadership di Pierluigi Bersani. A dimostrazione che giocare pulito in una campagna paga se non si rinuncia a contrapporsi legittimamente al competitor.
Vendola. L’unico avversario diretto ad essere attaccato è stato il leader di Sel, nel momento peggiore ovvero quando doveva decidere chi votare e se e per chi fare una dichiarazione di voto al ballottaggio. L’effetto trascinamento c’è stato e i sostenitori del governatore sono stati decisivi nell’ampliare al massimo la forbice del distacco fra Bersani e Renzi.
Staff. Da Giorgio Gori a Roberto Reggi difficile salvarne uno del giro della campagna di Renzi. L’ex direttore di Magnolia diciamo che ha sbagliato fin dal primo giorno, da quando cioè si fece beccare dal Termometro Politico nella stesura dei 100 punti della seconda edizione della Leopolda: da allora è entrato nel mirino come spin doctor di Renzi. L’eterodirezione per sms non resterà fra le trovate più geniali delle campagne elettorali. Sulle perle di Roberto Reggi si rimanda a questo articolo del Corriere Fiorentino, dal titolo emblematico: “Reggi, la Rosy Bindi di Renzi”. Logica ha voluto che pure Renzi non si fidasse molto delle loro intuizioni ed è finito per fare troppo di testa sua.
L’insegnamento migliore di queste primarie, in effetti, proviene dall’importanza dello staff. Bersani si è fidato molto della lucidità di Miguel Gotor e della freschezza di un paio di giovani, senza esagerare nella comunicazione ma assestando quei pochi fendenti utili a conservare il vantaggio. Renzi si è fidato solo di se stesso.