Cosa resta dalle primarie. Nuove sfide per Bersani e Renzi
[ad]Finalmente il capitolo primarie del centrosinistra s’è concluso. Una frase che si può attribuire a chi v’ha partecipato, a chi le ha seguite partigianamente, a chi le ha subite e anche a chi le ha denigrate. Le ceneri di questa battaglia (termine usato anche dagli stessi protagonisti) sono ancora fumanti ma, tra i fumi, si può certamente iniziare a vedere quel che resta.
Resta un Bersani che aveva tutto da perdere e che ha vinto, grazie alla solidità di un apparato e anche alla “forza tranquilla” (termine usato in analisi di voto di domenica 2 dicembre da un esaltato, per la previsione indovinata quasi al decimale, Nicola Piepoli) che ha infuso nei suoi messaggi soprattutto nella fase finale delle primarie, dopo un inizio contraddistinto da qualche gaffes (più del suo staff che dello stesso Bersani, a dire il vero) ma rafforzato dal fatto di essere un nome maggiormente ‘spendibile’ a livello europeo (vedi, ad esempio, l’incontro con Hollande). Un risultato – quello di queste primarie – prevedibile ma raggiunto con più apprensione del previsto perché l’onda dei “Mi piace” e dei “retweet” di Renzi ad un certo punto pareva inesorabile. Ma una regolamentazione ‘riassettata’ ed il sostegno – compatto – degli altri candidati nel secondo turno hanno rinsaldato il segretario del Partito Democratico. Ora per lui si aprono 4-5 mesi (le politiche dovrebbero tenersi tra marzo e aprile 2013) dove sarà necessario, per tenere il timone sulla sbandierata apertura alle “nuove generazioni”, non ricadere nella tentazione di una nuova Unione, preferendo – magari – una travagliata riforma elettorale il più possibile maggioritaria (in caso di necessità proporzionale “basterebbe” importare il modello spagnolo) ad un più sereno ma frankestainiano cartello che vada ad abbracciare alla destra l’Udc ed alla sinistra SeL. Un compito non semplice da realizzare ma decisivo per tramutare in realtà le aspirazioni di governo del Partito Democratico.
Dall’altra parte un Renzi che si può fare pochi rimproveri per come ha impostato la sua campagna per le primarie (si parla della forma, non dei contenuti). Una pecca si può però individuare: è stato indubbiamente un ottimo tattico ma un pessimo stratega. Sul lungo periodo della campagna infatti non è riuscito – o meglio, a livello comunicativo non sono riusciti nel suo staff- a farlo apparire qualcosa di più di un “rottamatore” (termine sempre presente quando si parla da terzi del sindaco di Firenze), messaggio ottimo per fare presa e farsi ‘ricordare’ ma che a lungo andare è rimasto un po’ stretto allo stesso Renzi. Ha costruito una fitta rete di comitati e fidelizzati che sicuramente non avrà voglia di disperdere (cosa che dovrebbe capire anche lo stesso Pd). Però c’è da dire una cosa: qual migliore zeitgeist politico di quello attuale per portare il “cambiamento” e vincere? Quando si potrà mai ripresentare una situazione talmente favorevole? Sorge qui il dubbio che sulla strategia qualcuno (forse non i ‘colonnelli’ della sua war room, ma magari qualche ‘tenente’…) non abbia avuto la lungimiranza di insistere più sul contenuto del programma che sull’immagine del candidato. Dopo l’affermazione mediale a livello nazionale, il sindaco avrebbe dovuto raggiungere un nuovo picco di popolarità tramutando i “Mi piace” ed i “tweet” in voti. Compito molto arduo, ma che è sicuramente mancato nel computo totale dei voti e non lo si può sicuramente imputare al candidato in sé. Renzi, come candidato, ha fatto il suo; alle sue spalle forse non tutti son stati “all’altezza”. Passate le primarie, per lui si aprono due fronti: uno interno, fiorentino, con una maggioranza a Palazzo Vecchio difficile da gestire (soprattutto su temi ingombranti come TAV e costruzione linee tramviarie) ed uno nazionale, dove il suo “apparato” chiede che l’esperienza non vada perduta.