[ad]L’umido freddo invadeva le strade di Makhachkala, capitale del Daghestan, oramai da qualche ora. Gadzhimurat Kamalov, fondatore dell’unica pubblicazione daghestana indipendente, Chernovik, abbandonava le stanze della redazione della sua rivista, dirigendosi verso casa. Improvvisamente, l’assordante tuono di quattordici colpi scuoteva Magomed Hajiyev Street, sede di Svoboda Slova, media holding editrice del settimanale. Cinque colpi stordivano la figura del giornalista, il sesto, colpendolo alla testa, lo sentenziava. Erano le 23.45, ora locale, del quindici dicembre di un anno fa.
Oggi, nei giorni del primo anniversario della scomparsa, il Daghestan registra una esponenziale escalation di violenza. I due fronti del sanguinario conflitto – l’opposizione alle autorità federali moscovite e l’intestina lotta tra la maggioranza governativa sufi e l’ala insurrezionalista salafita – perpetrano le loro bramose addizioni su macabri abachi della morte. Le ottocento vittime registrate nel 2012 dimensionano la capillare estensione di un conflitto, al momento, senza tangibili soluzioni. Il fatale intensificarsi di un logoramento interno, e la conseguente sottrazione di prospettive future, rimangono i rischi sfidando i quali, Gadzhimurat Kamalov, aveva intrapreso la sua carriera giornalistica. La speranza di restituire una pacificazione al suo popolo guidava il suo operato dal 2003, anno di fondazione di Chernovik. Egli, di origine avar, la maggiore tra le etnie daghestane, superando le costanti tensioni inter-etniche, si era posto come interprete super partes, intraprendendo diverse missioni volte a calmierare il regnante caos regionale. Oltre alla sua attività di giornalista, Kamalov aveva infatti ricoperto il ruolo di ufficio stampa durante il mandato presidenziale di Mukhu Aliyev (2006-2010) e la carica di membro del Consiglio Economico del Daghestan a seguito dell’elezione dell’attuale Presidente Magomedsalam Magomedov. Intesseva inoltre incessanti relazioni con le associazioni a difesa dei diritti umani presenti nella regione, cercando di porre fine agli abusi delle autorità ed implementando contemporaneamente processi di coinvolgimento della società civile. Proprio qualche settimana prima del suo omicidio, il 25 novembre 2011, aveva guidato un corteo di circa cinquemila manifestanti lungo le arterie principali di Makhachkala, denunciando le barbare azioni illegali intraprese dalle autorità locali e le reiterate scomparse di civili. Il fulcro della sua attività da pubblicista era infatti il disvelamento delle capillari attività corruttorie perpetrate arbitrariamente dalle autorità federali russe di stanza in Daghestan. Il 4 dicembre, dieci giorni prima della morte, il suo ultimo articolo evidenziava le interessate macchinazioni avvenute durante una recente elezione locale nel villaggio di Gunib, identificando nomi e cognomi dei politici adoperatisi al fine di causare la sconfitta di un candidato competente ed onesto.
A seguito dell’indipendenza dimostrata da Chernovik lungo il suo percorso editoriale, le autorità russe erano inoltre abitudinariamente ricorse al complice braccio della giustizia al fine di sanzionare economicamente le pubblicazioni del settimanale e di causarne così la cessazione delle attività. Riconosciuto plurimemente estraneo a colpe, e conseguenzialmente assolto, Kamalov non aveva tuttavia mai compiuto un passo indietro. La sua tenacia nell’interpretare coscienziosamente il ruolo di giornalista lo aveva anzi condotto, durante il periodo in cui la sua testata viveva una crisi finanziaria, a garantire i prestiti ricevuti dalle banche in prima persona, offrendo in caso di inadempienza il pignoramento della sua casa. Nemmeno l’inserimento del suo nome all’interno della cosiddetta “Lista della morte”, redatta nell’estate del 2009 dalle autorità federali nel tentativo di acquietare le insurrezioni regionali colpendo riconosciute personalità daghestane, aveva affievolito gli sforzi della sua quasi decennale lotta contro le plurime entropie caucasiche.
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[ad]Entropie che, oggi, in uno scenario eterodiretto, continuano a moltiplicarsi e ad accerchiare l’indipendenza del giornalismo da più fronti. I costanti sabotaggi nello svolgersi delle indagini riguardanti l’omicidio di Kamalov, e le evase richieste di interrogazioni parlamentari avanzate da familiari e colleghi, non costituiscono altro che le punte di un iceberg energeticamente sferrato contro la libertà di espressione rivendicata dalle testate editoriali. L’avvertimento russo materializzatosi nella suddetta “Lista della morte”, annoverante i nomi di ben otto giornalisti e condannante i fastidiosi report indaganti la dilagante corruzione federale, ha infatti felicemente trovato compagnia in queste ultime settimane. Uno dei principali siti, megafono delle rivendicazioni salafite, Vdagestan.com, in un post intitolato “Предупреждение журналистам” (Attenzione giornalisti), ha recentemente messo in guardia il giornalismo caucasico, accusandolo di offrire una copertura mediatica carente di oggettività e professionalità. Avvertendo oltre riguardo possibili rischi di condanne definitive nel caso in cui le dispregiative e denigratorie pubblicazioni concernenti l’Islam fossero state perpetrate.
In uno scenario esposto ad incrementali e costanti pericoli, l’esercizio e l’indipendenza della professione giornalistica vengono così sottoposte a quotidiane minacce. Un motivo in più per conferire oggi un dovuto tributo alla figura di un uomo che, rifiutando inflessibilmente qualsiasi complicità o compromesso personale, coraggiosamente continuava ad affermare “a newspaper does not need friends”.