Monti, il prezzo dell’indecisione
[ad]In queste ore Mario Monti e i suoi sostenitori centristi sono impegnati in un vertice definito con grande generosità “top secret” per decidere in quali forme realizzare la sua salita in campo per le elezioni politiche. È il player privilegiato vista la sua carica, che inevitabilmente lo vorrebbe protagonista e in attacco. La tentazione di accentrare su di sé una campagna, come si richiede a chi non può contare su un partito ramificato a livello nazionale, però è svanita in fretta. Da buon economista, il professore della Bocconi ha capito di essere un brand apprezzato e rispettato dai consumatori euroamericani – mettendo d’accordo le piazze finanziarie (e politiche) di Berlino, New York e Parigi –, ma con molto meno appeal nel mercato che conta, quello interno. Ben presidiata l’area del centrosinistra dall’effetto primarie, le sue idee troverebbero spazio nel centrodestra dove però non può pescare voti. Paradossale? Non troppo. Monti è uno dei molti possibili prodotti fuori target: le idee macroeconomiche liberali di austerity e dinamismo dovrebbero piacere a quel vasto e ambiguo schieramento che risponde all’appello col generico nome di “moderati”. I giudizi migliori sull’anno del suo governo li raccoglie, invece, fra gli elettori di centrosinistra.
Fra la rumorosa e istantanea candidatura rispetto alla riflessione sul da farsi ha preferito la seconda. Saggio, ma al tempo stesso comincia ad esserne un seguace estremo. Gli annunci su cosa farà davvero vengono diradati nelle cronache quotidiane da quando Alfano ha annunciato il ritiro del sostegno al governo in Parlamento. Che ha avuto come conseguenza la decisione di dimettersi una volta approvata la legge di stabilità. Con un pre-annuncio tanto per cambiare, anzi per cominciare. Da allora è cominciata la telenovela sulla candidatura a premier con tre settimane di puntate quotidiane. Il troppo pathos gli si è ritorto contro. Pur con le dovute proporzioni, in effetti, per Monti si potrebbe andare a ripescare quella regola molto cara ai politologi più attenti della politica locale: FAST (acrostico che sta per framing, anchorysing, symbolizing e timing). Saper prendere una decisione in tempo influisce sul successo o sul fallimento di una leadership, ragionando in termini elettorali. Quando si generano grandi aspettative o che sia per la costruzione di una grande infrastruttura cittadina o per decidere la corsa alla presidenza del consiglio e si fa slittare all’ultimo giorno utile la decisione finale e – peggio ancora – si delibera qualcosa di molto più modesto si rischia la disillusione in ogni potenziale elettore. Il premier non è riuscito ancora a dirimere a livello narrativo se la sua debba essere considerata una figura super partes o parte in causa nella competizione elettorale.
Mettendo in cattiva luce un cambio di strategia che sarebbe abile da parte di Monti: resosi conto dell’impossibilità di fare il candidato del centrodestra e dell’impraticabilità dell’ambizione di vincere le politiche di febbraio ha lanciato un’agenda per riformare l’Europa e immettere qualche vitamina per la crescita nel mezzo al rigore del pareggio di bilancio. “Un primo contributo” che – complice la montagna di suspence alimentata – è stato subito rispedito al mittente dalla cerchia più affine degli economisti liberali: “Troppo poco”, “statocentrico”, “non restringe il perimetro dello Stato” e altre bocciature tranchant provenute proprio da bocconiani (Alesina, Boeri e Tabellini) o da ex bocconiani (Giavazzi e Zingales) convinti di potere e di dover trovare il piano d’azione per una rivoluzione liberista. Ma era logico e sensato auspicarlo? Con il 4% accreditato dei voti, sommato ad un Polo che lotta per arrivare appena sopra la soglia di sbarramento la flessibilità di un’agenda con buone tasse (l’Imu) e una Spending review è una base per spostare verso il centro il prossimo governo di centrosinistra. Del resto, la necessità dell’alleanza post-elettorale al Senato è il quadro più probabile. Vista la porzione minoritaria rappresentata, sarebbe un successo. A meno che uno non si faccia davvero prendere la mano anche in sede di analisi e prenda talmente sul serio l’effetto FAST da reclamare dopo queste infinite settimane sul serio l’arrivo della Thatcher e di tutta la scuola di Chicago boy fusi in una sola persona e in una sola agenda. Potrà non piacere, ma il realismo sarebbe la misura di questo tempo.