Breve storia del cinema italiano: i fasti del passato la crisi del presente
Il cinema italiano rimane sinonimo di modello, mito, leggenda del secolo scorso, subito dopo quello americano, a volte superandolo o fornendogli spunti. Il primo regista a a concepire e realizzare un kolossal fu…
[ad]Il torinese Giovanni Pastrone, con il suo “Cabiria” (1914). Qualcuno sostiene che David W.Griffith si fosse ispirato a lui per il primo polpettone a stelle e strisce, quel lunghissimo e soporifero “Intolerance” , anno 1916, che guai se qualcuno si azzarda a criticare, visto il valore paradigmatico di capolavoro che nessuno vuole levargli.
In effetti non sveliamo alcunché di misterioso se affermiamo che l’eplosione della creatività italiana si ebbe con l’avvento di Cinecittà, concepita durante il ventennio fascista proprio in dispetto agli studios di Hollywood, nell’odiata (ma poi davvero?) America.
Sta di fatto che allora gli attori avevano alle spalle ben altro retroterra della maggior parte di quelli attuali, e lo diciamo senza alcun compiacimento autoflagellatorio. Riportiamo di seguito un libero estratto dal libro Columbus II (2011) , dell’autrice di questo articolo, che dice qualcosa su quei tempi: “Christian De Sica dichiarò che fu grazie a Cesare Zavattini, egregio co-sceneggiatore dei migliori film di Vittorio, se suo padre si lasciò alle spalle le frivole pellicole da “salotti ungheresi”. Zavattini in pratica può paragonarsi a I.A.L. Diamond per Billy Wilder.”
Il genere, frivolo, è forse oggi dimenticato, ma può essere paragonato , con più classe, alle commedie di svago verso le quali l’Italia stava già scivolando. Tra il paese magiaro e l’Italia è sempre corso un sottile legame. Lì andavano i vip nostrani a divorziare (cfr. Columbus), da lì arrivarono soubrette ad allietare lo spettacolo di casa nostra (il trio Lescano); a un certo genere di film da boudoir, colà inventato, si ispiravano le commedie all’italiana in cui, all’inizio, De Sica lavorò. Era comodo ambientarli altrove, in quanto ogni manchevolezza esistenziale poteva essere attribuita agli usi stranieri (per esempio, che una coppia divorziasse).
In Italia, le dive per eccellenza del genere erano, all’inizio, nel muto, Lyda Borelli (fiorentina, 1887-1959) e Francesca Bertini (genovese, vero nome Elena Vitiello, 1892-1985), ricordate soprattutto per le scene melodrammatiche, attaccate alle tende di qualche salone. La seconda, poi sposata con il banchiere svizzero Cartier, (detestava il mammismo dei maschi italiani), morì dopo anni di oblio e fu sepolta sotto una sconnessa lapide nella terra del Verano.
Negli anni trenta , però, vennero fuori energie notevoli, sia sul piano delle idee che della capacità intepretativa degli attori, tutti provenienti dal teatro e dunque rodati nel mestiere. Naturalmente la recitazione cinematografica comportava altre regole, ma pare, a guardare quei lavori, che il trasbordo tra generi, benché oneroso, non sia stato traumatico: sembrano tutti nati davanti alla macchina da presa.
Allora, senza televisione, un divo era davvero tale: meno numerosi e inflazionati d’immagine, potevano vantare curriculum di rispetto, non certo quattro imprecazioni in un reality. All’apice stavano il sornione Gino Cervi, bolognese, e il sardo/ veneto Amedeo Nazzari, un po’ Errol Flynn prima ancora dell’originale. In un suo film, “La Cena delle beffe”, compare la prima scena osé in una produzione “seria”, e si deve alla disinibita Clara Calamai. Quest’ultima brilla tra le donne, insieme a tante validissime colleghe, di cui l’elenco sarebbe lungo. Ricorderemo, come icona dell’epoca frou frou, la russa italianizzata Assia Noris, poi ritiratasi a Sanremo; e, più impegnata, la triestina austriaca Alida Valli , richiesta addirittura in America da Hitchcock (” Il caso Paradine”, con Gregory Peck, del 1947).
Occorre anche ricordare che quasi tutti questi attori in seguito troveranno sbocchi negli sceneggiati televisivi, specialmente tratti da opere famose e autori prestigiosi: un esempio per tutti sarà lo stesso Cervi, celeberrimo nella parte del commissario Maigret.
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