Dal Patto Segni alla Lista Monti: l’eterno ritorno della politica italiana
La politica italiana è sorprendente. Sorprendentemente sempre uguale a se stessa. Solamente un paio di mesi fa mi ero soffermato a sottolineare come la crisi dei partiti del 2012 fosse così simile a quella del 1992-1993, anche se esistono differenze che ben separano le due esperienze.
[ad]La singolarità, ed il perdurare delle “somiglianze”, sta nelle varie soluzioni che si cercano di dare a questa crisi. Alle elezioni del 1994 ci si è trovati davanti a: uno schieramento progressista – quasi omonimo (“L’alleanza dei Progressisti”) – guidato da Achille Occhetto, assieme a quel che rimaneva del Psi, la neonata Rifondazione Comunista ed altre formazioni di stampo centrista (vi cito, capirete poi perché, Alleanza Democratica). Dalla parte opposta della politica italiana, la “new entry” Silvio Berlusconi, sceso (allora si scendeva ancora) in politica dall’endorsement dato a Fini alle comunali di Roma, che giocò su due tavoli: al nord con la Lega Nord (in forte ascesa) al sud con il Movimento Sociale Italiano, diventato nel frattempo Alleanza Nazionale.
C’era però un terzo polo, quello guidato da Mario Segni, che introduco con questo estratto del Corriere della Sera del 25 gennaio 1994: “Il professore s’infila il cappotto blu, dissepolto da una montagna di giubbotti e giacche a vento, supera un paio di fotografi stremati dall’assalto e a corto di rullini, si lascia alle spalle Maroni, indifeso e assediato da microfoni e telecamere, e s’incammina …”. A qualcuno, a questo punto, inizierà a gelare il sangue – ancor di più se si pensa che il “professore” citato nell’articolo di Verderami è Rocco Buttiglione -, ma è opportuno andare avanti. Dicevamo, il Patto Segni nasce esattamente 19 anni fa (il 5 gennaio 1994, evidentemente le festività natalizie sono terreno fertile per le coalizioni centriste) come alternativa “di centro” alle due formazioni che si stavano delineando. Il Patto si presenterà come “Patto per l’Italia” nella quota maggioritaria alla Camera, raccogliendo il 15%, ed al Senato, dove salì fino al 16%. Allora la legge elettorale era appena stata riformata, passando dal proporzionale post-seconda guerra mondiale al misto a ‘prevalenza’ maggioritaria, seppur calmierata da una quota proporzionale.