La falsa alternativa tra tecnocrazia e populismo

S’è parlato molto, nel 2012, di tecnocrazia e populismo. L’esperienza del governo tecnico guidato da Mario Monti suscita, com’è ovvio, diverse interpretazioni. C’è chi la valuta come un’esperienza fallimentare e disastrosa, contraria all’interesse dell’Italia, imposta da gruppi di interesse sovranazionali. C’è chi la reputa un male necessario, una fase di transizione opportuna per ristabilire il prestigio dell’Italia e per superare una situazione emergenziale. C’è infine chi la considera un laboratorio politico utile per mettere a punto qualcosa che avrebbe un valore anche per il futuro e anche al di fuori dell’Italia. Di questa interpretazione si è fatto portatore lo stesso Monti quando, nella conferenza di fine anno ha detto che “gli Stati Uniti stanno cercando di fare quello che l’Italia ha fatto nel 2012”.

 

[ad]Dietro a questa visione delle cose c’è l’idea che la democrazia “pura” sia un sistema inefficiente, che non riesce a prendere le decisioni necessarie al bene del paese e dunque che la democrazia vada “neutralizzata”, “spoliticizzata”, sottraendo le scelte fondamentali alla discussione pubblica e spostando questa su questioni relativamente di dettaglio. Questa operazione diventa possibile sulla base dell’idea che vi sia un sapere oggettivo, che vi sia essenzialmente un solo modo di perseguire il bene del paese e che i “tecnici” siano coloro in grado di farlo meglio. E’ la tecnocrazia.

Lasciando stare la questione di come sia possibile selezionare questa aristocrazia che dovrebbe poi governare (il dubbio è che questo discorso mascheri semplicemente la volontà di certi gruppi di potere di affermarsi e legittimarsi) c’è un problema più fondamentale in questo discorso, ovvero la supposizione dell’esistenza di una verità condivisa, di un’unica analisi delle cose che si tratterebbe solo di applicare e far valere senza cedere al populismo.

Già, le pulsioni populiste. Se in apparenza queste rappresentano il nemico per la tecnocrazia, in realtà questa ha vitalmente bisogno di quelle. Da un lato è solo contrapponendosi ad un populismo rabbioso ed esacerbato, che la tecnocrazia può far risaltare al meglio il suo sapere compassato, la sua “affidabilità”. E tanto maggiore è il clamore della folla, tanto meno diventa possibile discutere le ricette del tecnocrate. La scelta diventa: o me o il caos. Ma c’è un’altra faccia della medaglia. La tecnocrazia non solo si contrappone al caos ma segretamente lo produce. Il “riformismo dall’alto” che il tecnocrate propugna è insensibile alla sofferenza sociale, rigetta il principio rappresentativo, il contatto con i sentimenti e i pensieri delle masse condannandolo come inaccettabile deviazione dal rigorismo delle sue politiche. E la popolazione, non trovando ascolto presso una politica tecnocratica separata da essa, esprime la sua rabbia come può.

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[ad]Ci troviamo allora tra Scilla e Cariddi. Ma tanto la tecnocrazia quanto il populismo hanno una parte di ragione e una parte di torto. Il tecnocrate ha ragione nel far valere la complessità della realtà e l’impossibilità di compiere le scelte decisive della politica senza un sapere adeguato. Il populista ha ragione in quanto dà voce alle ragioni della popolazione inascoltata. Servirebbe allora un raccordo tra le due figure. Questo raccordo si chiama Politica e si chiama partito.

 

Naturalmente un partito profondamente rinnovato rispetto ai partiti che conosciamo oggi. Un partito che serva a gettare un ponte tra il Palazzo e le Masse. E se esistesse questo ponte il Palazzo smetterebbe di essere il Palazzo e le Masse smetterebbero di essere le Masse. Da un lato perchè il partito, aderendo a tutte le pieghe della società, permetterebbe alla politica nazionale di conoscere molto meglio la società.

E il sapere astratto della tecnocrazia diventerebbe un sapere concreto, aderente alla vita e alla sua molteplicità. Dall’altro il partito permetterebbe ai cittadini che avvertono il bisogno della politica, che hanno esigenze, bisogni, volontà di impegnarsi, di imparare a declinare queste esigenze, questi bisogni, questa volontà, in una maniera compatibile con la complessità e con le condizioni della realtà.

D’altra parte però, di questa complessità e di queste condizioni non vi sarebbe più un’interpretazione unica, ma interpretazioni diverse, ugualmente articolate ma ispirate a differenti idee di società. E’ un processo difficile, ma è l’unico che, a lungo andare, permette alla democrazia di essere qualcosa di più di una parola vuota.