RUSSIA – La trepidante attesa eccitava la spasmodica frenesia degli ansiosi strusci tardo-pomeridiani moscoviti. L’anno nuovo si preparava a vestire il suo abito migliore. Vladimir Putin allenava il patriarcale discorso di auguri con cui avrebbe di lì a poco allietato i fedeli tele-vassalli e tele-valvassori.
[ad]Piazza Rossa, esaltante la sua magnificenza con un decoroso spolvero di neve, esaminava smorfiosa i suoi ospiti sottoponendoli alla prova del metal detector. Un’allegra folla di immigrati tagiki, turkmeni, kazaki, kirghisi, unici odierni entusiasti dell’oramai non più tradizionale Capodanno in Piazza, stappando le proprie malinconie, si concedeva alle brame della lussuriosa smorfiosa. Pochi metri più in là, all’estremità settentrionale di Ploshchad Revolyutsii, Karl Marx stancamente ribadiva il suo scolpito e anacronistico messaggio di auguri, “Proletari di tutto il mondo, unitevi”, rinvenendo dallo sconforto di cotal predicazione nel deserto solo grazie al lussureggiare neoclassico del dirimpetto Teatro Bol’šoj e alle piroette Art Nouveau dell’Hotel Metropolitan. L’insolita tranquillità di Okhotnyy Ryad, presa a sigillare le imperfezioni della Duma, congedava la tormentata annata parlamentare di un orripilante edificio inevitabilmente generante orripilanti normative.
All’angolo con Tverskaya ulitsa la gioiosa aria di festa ritornava però a concedere i suoi sospiri. L’imponenza del maestoso Palazzo del Telegrafo, anticamente abituato alle premure degli ultimi preparativi, e del vicino Civico n.9, ieri salotto della nomenklatura oggi consolatore delle fantasie di burocrati in cerca di riservatezza, preparavano l’illuminata apparizione del Palazzo del Comune, benevolmente recitante i propri auguri alla cittadinanza. Un centinaio di metri avanti, Pushkin regalava alla città il suo ultimo annuale severo sguardo, il Cinema Rossja offriva omaggi alle solitudini dei suoi malinconici spettatori e il Palazzo della Izvestia, facendo calare il suo sipario giornalistico, relegava alle cronache un altro servile anno. Poco oltre, dimenandosi tra l’ingombranza culturale della Tchaikovsky Concert Hall e l’elevatezza commerciale dell’ex Hotel Pechino, Piazza Triumfal’naya, ex Majakovskij, era intenta a preparare il suo augurale messaggio di fine anno. Qui, luogo caro alle rivendicazioni anti-putiniane, si radunava infatti lo sparuto gruppo di manifestanti, capeggiato dallo scrittore a suo modo dissidente Eduard Limonov, volenteroso di affermare un’urgente democratizzazione della Russia. Il movimento, parte della disorganizzata e sconclusionata opposizione in Russia, aveva trovato infatti nel 31 di ogni mese il numerico slogan richiamante l’articolo 31 della Costituzione russa, garantente, anche esso a suo modo, “il diritto di riunirsi pacificamente, senza armi, e di intraprendere riunioni, raduni, manifestazioni, marce e picchetti”. La concomitanza con le celebrazioni, ottima vetrina internazionale, rendendo mediatici i probabili arresti, garantiva l’efficacia dimostrativa del gesto. L’eclettismo della figura di Limonov, e la fortunata recente pubblicazione di una sua romanzo-biografia, faceva il resto.
Contrariamente alle solite reazioni sdegnate, costante liturgia successiva alle arbitrarie incarcerazioni putiniane di oppositori o dissidenti, i fermi del 31 dicembre ricevevano però null’altro che frettolosi echi sulle pagine dei giornali internazionali. Le riflessioni, lungi dall’evidenziare l’ennesima morsa del regime, sbrodolatamente approfondivano l’inetichettabile personalità del presunto dissidente: Eduard Limonov. Il più abile dei prestigiatori. Egli, impostosi come popolare difensore democratico, abilmente nascondeva dietro all’eccentrica personalità la preoccupante vena della sua fazione politica: il Partito Nazional-Bolscevico.
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[ad]Esso, ufficialmente sciolto dalle autorità della Russia nel 2007, raccoglie oggi intorno a sé gli ossi di seppia di una marea di spaventevole portata. Rompendo, in coerenza con il proprio leader, qualsiasi categoria politica la Storia abbia provato a teorizzare, i Nazbol, colorano infatti i propri slogan con lo sfondo rosso della loro bandiera, evidente richiamo al passato comunista, e con il nero simbolo di falce e martello su campo bianco, lapalissiana ispirazione alle vicende nazional-socialiste tedesche.
Anacronisticamente immaginano un mondo post-capitalista, tinteggiando il proprio berciare di sfumature xenofobe, antisemite e razziste; si augurano inoltre un’egemonia mondiale euroasiatica capeggiata dalla Russia. Vedono infine nel capo unico, nonostante le dimostrate perversioni capaci di sedurre solamente gli impoveriti fascini dei circoli letterari parigini, la personificazione dell’ideale da perseguire nello sconclusionato progetto di addizionare miseria all’attuale pochezza della politica russa. Così, il Male Assoluto, rappresentato nell’ultimo decennio da Vladimir Putin, si appresta a diventare Male Relativo. Un’opposizione, proclamantasi democratica ma impomatantesi delle più abominevoli fragranze del Novecento, rischia infatti oggi di condannare la Russia alla novità di una tetra presenza di alternative. Qual miglior auspicio per un roseo 2013.