Di Enrico Rossi, ottimo ex assessore alla sanità della regione Toscana e distinto governatore della regione stessa, ultimamente si era parlato perlopiù per molte dichiarazioni “gauchiste” sulla falsariga della moda del periodo in casa Partito Democratico. Siamo a Siena. E parliamo di Monte dei Paschi.
[ad]Addirittura, sul fronte prettamente politico, Rossi si è posto come l’amministratore locale Pd di più alto grado ad essere fortemente contrario all’iniziativa del governo Monti, dando vita ad una curiosa dicotomia tra le sue posizioni (non certo solitarie) e quelle del partito.
Tanto che, c’è da scommetterci, col Professore in pista lo stesso governatore toscano potrebbe rivendicare la paternità di una certa forma di “revisionismo democratico” nei confronti dell’operato del governo nell’ultimo anno in viga in taluni settori democratici.
Nei giorni scorsi però Rossi ha dato vita ad un’uscita infelice, sul tema Monte dei Paschi, che in molti hanno ritenuto fuori luogo.
A proposito infatti della vicenda legata all’istituto di credito senese ha dichiarato che la colpa sta sì proprio nel Pd. Ma in quanto negli ultimi anni si è piegato politicamente troppo alle sirene e alle istanze della finanza mondiale. Da qui Monte dei Paschi che ha dato vita, essendo etero diretta dal Pd, ad azzardate e infruttifere operazioni di tipo finanziario.
La curiosità di questa affermazione non sta tanto nel fatto che Rossi confermi il forte legame Pd-Monte dei Paschi. Ma che non scomunichi questo tipo di influenza. E anzi se ci sono stati problemi per la banca non è tanto perché etero diretta dal partito e dagli enti locali attraverso la sua fondazione (maggioranza relativa dell’azionariato e dunque del consiglio d’amministrazione) ma in quanto è il Pd ad aver sbagliato politica nel corso degli anni. Se il Pd non avesse sbagliato politica (col senno di poi sono tutti grandi statisti) oggi ci troveremmo in una posizione del tipo “tutto va bene, madama marchesa”.
La vicenda Monte dei Paschi invece conferma ulteriormente che non va per niente bene la situazione senese.
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[ad]A parte il fatto che interesserebbe sapere quali sarebbero questi fantasmagorici leader della sinistra colpevoli di aver dirottato la loro parte politica tra gli scogli della finanza (i governi Prodi? Quell’anno e mezzo di governo D’Alema? L’ordinaria amministrazione del dottor Sottile? Oppure quell’anno di opposizione al governo della segreteria Veltroni sommati ai suoi cinque mesi da sindaco-segretario?) ci si chiede perché non sfruttare la terribile crisi per una risistemazione di un quadro quanto mai frammentato e confuso. Che senz’altro si basa su secoli di consuetudini, ma che al tempo stesso proprio per essere preservato (sì, pure la peculiarità senese nel suo complesso) necessità di una seria revisione per consentirgli di sopravvivere in un contesto globale sempre più interdipendente multipolare. Anche dal punto di vista bancario.
L’eccezionalismo italiano non si basa solo su un’unità nazionale tardiva, su un bipolarismo imperfetto o sull’anomalia berlusconiana. Ma anche nella risistemazione di una fondazione bancaria che ha oggettivamente troppo peso, con tutte le conseguenza sugli appetiti degli enti locali, sull’attività ordinaria della banca.
E come si è visto con la presidenza Mussari si pone anche il tema di una situazione che non ha assicurato in questi anni un management appropriato o in grado di sbrigliare le complesse matasse del sistema finanziario mondiale. Della serie se a Chernobyl ci fosse stato qualche laureato in fisica o almeno in chimica al posto di qualche funzionario di partito, forse i danni sarebbero stati inferiori.
Una posizione di questo tipo tra l’altro, che di fatto dà forza all’eccezionalismo senese allo stretto rapporto tra banca e partito, si scontra fortemente con la linea del segretario nazionale e con la sua netta distinzione tra “il partito che fa il partito, la banca che fa la banca”. Al tempo stesso va contro quel flebile tentativo, da parte del sindaco Ceccuzzi, di cambiare lo stato delle cose a Rocca Salimbeni.
Proprio perché giustamente ci si rifà alla disciplina di partito, anche per ovvi motivi di subcultura, occorrerebbe come minimo prendere in considerazione le dichiarazioni e la linea di Bersani.
Porta poca consolazione sapere che a Siena non c’è anche il partito, ma anche l’Opus Dei e la massoneria.
Senz’altro, su questo non abbiamo dubbi, nell’anno di fondazione del Monte dei Paschi del 1472 non esisteva né il Pci né il comunismo (l’ordine dei due termini non è casuale: per qualche esponente Pd è l’esperienza storica del Pci che porta al materialismo dialettico e non viceversa). Di conseguenza una potenza bancaria di quel tenore doveva reggersi ad altri soggetti “istituzionali” e “politici” per una legislazione favorevole o per presidiare le caselle del potere.
Prima la massoneria e le associazioni cattoliche (a seconda del vento guelfo o ghibellino), poi i partiti. Che in Toscana, a parte qualche sacca, sono rappresentati dalle distinte fasi Pci-Pds-Ds-Pd.
Ma questa stratificazione storica di questo tipo giustifica un rapporto così morboso e poco proficuo?
Molta gente dalla sinistra, considerando lo stato delle cose non idilliaco nel nostro Paese, si attende atti rivoluzionari. Non la consueta voce della reazione.