Al Nord Europa il bilancio 2014-2020 dell’Unione europea piace. Piace perché in fondo era il bilancio che i leader scandinavi speravano di ottenere. Un bilancio ridotto, come ridotte sono state alcune quote che i paesi nordeuropei dovranno versare. Un punto, questo, sul quale è stata la Danimarca a puntare i piedi con più fermezza. Helle Thorning-Schmidt l’aveva annunciato con largo anticipo: senza uno sconto di un miliardo di corone, Copenhagen avrebbe fatto valere il suo diritto di veto.
[ad]Una strategia (una minaccia?) che ha dato i suoi frutti: già qualche ora prima dell’inizio del vertice europeo, il quotidiano Politiken anticipava che la Danimarca avrebbe ottenuto ciò che voleva. Indiscrezione confermata al termine delle lunghissime trattative. Per la prima volta la Danimarca ha ottenuto una riduzione sul proprio contributo europeo. “Non c’è dubbio che questo accordo è un bene per la Danimarca, ma non c’è dubbio che è bene anche per l’Europa” ha dichiarato Helle Thorning-Schmidt. Di sicuro è un bene per il suo governo. La premier danese era andata a Bruxelles determinata a ottenere uno sconto sostanzioso ed è tornata in patria con l’obiettivo in tasca. Come sottolineato dal quotidiano Berlingske Tidende, il rischio era quello di veder ulteriormente intaccata la propria leadership (sia all’estero sia in casa) e alimentare il sentimento antieuropeista che alberga in Danimarca.
Lo stesso antieuropeismo che in fondo soffia pure in Finlandia. A Helsinki, l’opposizione non ha accolto con soddisfazione l’accordo sul bilancio europeo. Timo Soini, leader dei Veri Finlandesi – forza ultraconservatrice e apertamente euroscettica – lo ha definito senza mezze misure il peggiore di sempre per il proprio paese. Perplessità anche da parte del Partito di Centro, il quale teme che i progetti europei per lo sviluppo delle aree scarsamente abitate possano subire un ridimensionamento. Il premier Katainen si è detto invece soddisfatto e ha definito ragionevole il contributo che Helsinki dovrà versare. In pratica anche Katainen ha affermato di aver ottenuto ciò che voleva: ma, come sottolineato dal quotidiano Helsingin Sanomat, la Finlandia non s’era seduta al tavolo delle trattative con obiettivi dichiarati.
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La Svezia invece sì. L’asse anglo-svedese è piuttosto solido e a Bruxelles il premier Reinfeldt ha spalleggiato la linea dell’inglese David Cameron. Parole d’ordine: meno spesa, da declinare a livello continentale (ridurre il bilancio) e nazionale (ridurre il proprio contributo). Così è stato. Reinfeldt è riuscito a strappare uno sconto di circa mezzo miliardo di corone. Poca cosa, secondo l’opposizione di centrosinistra, ma è comunque uno sconto.
[ad]Reinfeldt ha parlato di un buon accordo per la Svezia, e si tratta di una boccata d’ossigeno in una fase nella quale continuano a farsi sentire i problemi all’interno della sua maggioranza. Al di là delle polemiche tra quattro i partiti che compongono l’esecutivo (l’ultima, scoppiata in questi giorni, riguarda la spesa per la difesa militare) sono i sondaggi a preoccupare. I Moderati del premier oscillano tra il 28 e il 29% e i laburisti non sono per niente distanti (31%), ma il problema si chiama ancora Partito di Centro, dato sotto la soglia del 4%. Mikael Sundström, docente di scienze politiche all’università di Lund, lo ha spiegato bene: se la leader Annie Lööf non riuscirà a risolvere le questioni interne entro l’estate, a quel punto sarà probabilmente troppo tardi. E le ripercussioni in termini elettorali sull’intera maggioranza potrebbero essere determinanti.
Cambia il paese, cambia la coalizione ma i nomi restano identici. In Norvegia infatti è proprio il Partito di Centro quello che sembra attraversare la fase più turbolenta. Argomento di discussione – e divisione – è il petrolio: dove andare ad estrarlo e che ruolo esso debba avere nel futuro del paese. Domande d’un certo peso, queste: e a farsele non sono solo i centristi. Lo scorso fine settimana, presentando un documento sulle prospettive dell’economia norvegese da qui al 2060, il ministro delle Finanze Sigbjørn Johnsen ha detto sostanzialmente che il petrolio non può risolvere tutti i problemi e non potrà farlo soprattutto in futuro. Parole condivise dal premier laburista Jens Stoltenberg. La sfida per la Norvegia, ha detto il ministro, ha a che fare con l’invecchiamento della popolazione, e quindi con la capacità di adattare il welfare ai cambiamenti, e quindi con la tenuta dei conti pubblici.
Se non si cambierà nulla, ha ammonito Sigbjørn Johnsen, nel 2060 . Soluzioni? Secondo il capo del dicastero delle Finanze, se si vorrà mantenere lo stesso livello di ricchezza e la stessa generosità nel welfare, si dovrà lavorare di più o più a lungo. Inevitabilmente l’età pensionabile dovrà essere spostata in avanti. Il futuro del paese non si giocherà sul petrolio ma sulle scelte (anche difficili) che verranno fatte nei prossimi anni. E la chiave, dice Johnsen è una sola: il lavoro come base per il benessere economico di ciascun individuo, ma anche come ingrediente imprescindibile per la sostenibilità dello stato sociale.