Accordo. Uno dei temi di cui più si è parlato in questa campagna elettorale è l’eventualità che dopo le elezioni, l’impossibilità tecnica di dar luogo ad una maggioranza al Senato costringa lo schieramento vincente, presumibilmente quello di centrosinistra, a formare una coalizione postelettorale con il centro capeggiato da Monti.
[ad]Più volte messo alle strette sul tema (l’ultima volta oggi 14 febbraio ad Omnibus), Pierluigi Bersani ha mantenuto su questo punto una posizione abbastanza coerente: la situazione del paese è tale da richiedere l’appoggio di tutti coloro che, uniti dai valori costituzionali e da una ferma visione filoeuropeista, si oppongono al populismo e all’estremismo.
L’’accordo col centro sarebbe dunque opportuno a prescindere dal risultato finale, sia che il centrosinistra ottenga sia che non ottenga la maggioranza.
Quali che siano i reali motivi strategici che portano Bersani ad assumere questa posizione, è evidente che essa viene posta agli elettori come un proposito politico caratterizzato da grande senso di responsabilità. Di fronte a difficoltà per la cui soluzione è necessario prendere decisioni con un consenso esteso, non si fa l’errore (che si fece nel 2006) di arroccarsi su posizioni di parte ma si sceglie di condividere il potere per meglio direzionarne l’agire verso l’interesse generale.
Per certi versi, sembra che Bersani voglia ammantare questa sua posizione di quell’aura di moralità integerrima e di sano pragmatismo che, in Germania, aveva caratterizzato la famigerata Grosse Koalition fra CDU e SPD nel quadriennio 2005-2009.
Allora, in un contesto in cui nessuno aveva vinto le elezioni in modo chiaro, i due grandi partiti tedeschi decisero di dar luogo ad un governo comune, che fosse in grado di continuare quelle importantissime riforme economiche che la Germania era impegnata ad implementare.
Ci sono almeno un paio di evidenti motivi che rendono del tutto erroneo un accostamento fra queste due situazioni (schematizzate nei due grafici qui sotto).
Qui si parla invece di annettere ad una coalizione che al massimo prenderà il 35% dei voti un centro moderato che si collocherà attorno al 15%. Insomma, ci si espone al rischio di mettere assieme di tutto e di più, per non arrivare nemmeno ad un consenso pari alla maggioranza assoluta dei suffragi.
In secondo luogo, la SPD, proprio per evitare contraddizioni interne troppo palesi, fece una scelta politica tutt’altro che scontata, e di grandissima rilevanza: decise che, pur avendo i numeri per farlo, non sarebbe stato opportuno costruire una maggioranza di centrosinistra con i Verdi e con la Linke, e accantonò i due suoi tradizionali alleati per governare con la Merkel, anzi addirittura sotto la Merkel.
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Bersani, invece, non solo non ha alcuna intenzione di mollare SEL, ma, se anche lo volesse, non lo potrebbe sostanzialmente fare, visto che le regole del gioco lo hanno indotto a costruire con Vendola una alleanza preelettorale, grazie alla quale dovrebbe ottenere il premio di maggioranza alla Camera.
[ad]È inimmaginabile che Bersani, dopo aver vinto il premio grazie ai voti di Vendola, decida di governare solo con Monti.
È ben difficile, come si vede, accostare le due situazioni. La situazione italiana attuale è molto semplice, ed è ben diversa: Bersani avrà bisogno di una stampella centrista sia che non abbia la maggioranza al Senato (perché in tal caso non ci sarebbero alternative al ritorno alle urne), sia che l’abbia (perché in tal caso avrà bisogno di una sponda moderata con cui relativizzare i problemi che potrebbero giungere da SEL, specie in un contesto di diffidenza europea nei nostri confronti).
In questo modo, però, e questo il PD sembra non capirlo, si otterranno contemporaneamente due obiettivi micidiali: si darà vita ad un governo assolutamente privo del consenso sociale necessario a prendere le decisioni di cui il paese ha bisogno; lo si popolerà di soggetti politici fra loro troppo diversi, e pertanto lo si esporrà al fortissimo rischio di dare l’immagine della inefficienza e della litigiosità.
Uno scenario potenzialmente esplosivo, se si pensa alle strumentalizzazioni politiche che su di esso potrebbero fare due opposizioni agguerrite e populiste come quella berlusconiana e quella grillina.
L’immagine, piuttosto inquietante,è quella di un centro politico risicato e diviso al suo interno, assediato da ogni parte da forze antisistema che gli si oppongono in modo totalizzante, ovvero non solo contestandone le politiche ma negandone anche la legittimità.
Il rischio è quello di trasformare una crisi politica in una crisi di regime. Una situazione che, più che a quella della Germania del 2005, assomiglia cioè molto più a quella della Francia del 1951 (schematizzata nel grafico qui sotto).
Allora l’elettorato si divise in modo quasi identico in quattro parti: due porzioni moderate ma molto difficilmente coalizzabili (il centrosinistra di socialisti e radicali e il centrodestra di cattolici e indipendenti), e due porzioni estreme che si opponevano esplicitamente al regime in essere. Chi negandone i presupposti socioeconomici (i comunisti). Chi criticandone esplicitamente la totale incapacità di produrre decisioni efficaci (i gollisti).
La paralisi che seguì a quelle elezioni, e le terribili difficoltà che la Terza Forza (ovvero la “grande” coalizione fra centrodestra e centrosinistra) manifestò nel gestire il problema algerino portarono, negli anni seguenti, alla crisi e al tracollo della Quarta Repubblica e al trionfo del gollismo.
Un’altra situazione paragonabile a questa è quella che si è vista in Grecia l’anno scorso, con Nea Demokratia alleata con la sinistra moderata del Pasok e di Dimar: schieramento divisissimo al suo interno, con circa il 50% dei consensi, assediato da destra e da sinistra a soggetti euroscettici e populisti, quando non esplicitamente fascisti e comunisti.
Insomma: l’antipolitica e la sfiducia nel sistema democratico si sconfiggono solo mostrando che la buona politica c’è e funziona, ma è ben difficile riuscire in questo intento se per governare si è costretti a formare coalizioni omnicomprensive e rissose.