L’ultimo anno è forse stato per la Lega Nord il più difficile della sua storia. Già in passato il Carroccio aveva vissuto momenti di grande difficoltà, ma mai era stato necessario un avvicendamento al vertice per affrontarli. La crisi dell’anno scorso è seguita ad un periodo estremamente prospero, che ha visto la Lega prodursi in una crescita elettorale di durata decennale: dal 3,9 delle politiche del 2001 ad oltre il 12% delle regionali 2010, senza interruzioni sia che essa stesse al governo sia che stesse all’opposizione. Solo alle amministrative del 2011 si è registrato il primo, evidente, arresto, e fu proprio quella tornata di elezioni locali a paralizzare il governo Berlusconi, avviandolo verso la catastrofe.
[ad]L’elettorato leghista è sempre stato molto coerente con se stesso: sino a che l’alleanza con Berlusconi sembrava in grado di dare frutti, seppur lentamente e con il contagocce, essa è stata tollerata. Quando le gocce hanno cessato di scendere, l’elettorato ha reagito prontamente, astenendosi in misura molto rilevante, e mostrandosi favorevole ad una linea politica autonoma dal centrodestra. Bossi è riuscito a resistere alla tentazione di mollare Berlusconi per evitare di prendersi la responsabilità di farlo cadere, e gli è bastato aspettare sei mesi perché il governo cadesse altrimenti. Contrariamente rispetto al suo alleato berlusconiano, il ritorno all’opposizione è stato un vero e proprio toccasana: i leghisti sono rapidamente tornati sopra il 10% secondo tutte le rilevazioni sondaggistiche. Nonostante questo, il partito era spaccato a metà: con la truppa maroniana in subbuglio contro il cosiddetto “cerchio magico”, accusato di manovrare occultamente Bossi. Le tensioni apertamente scissionistiche parevano solo rimandate, non certo sopite, dal ritorno all’opposizione.
La svolta, inaspettata, è avvenuta tramite le inchieste giudiziarie della primavera del 2012, che hanno letteralmente sbriciolato tutto il consenso accumulato dal Carroccio nel corso dei 10 anni precedenti. Il momento di estrema difficoltà è stato però utilizzato da Maroni per attuare un colpo di mano da anni desiderato. Brandendo la ramazza contro il “cerchio magico” e accusandolo di essersi lasciato “romanizzare”, Bobo, in occasione del tanto atteso Congresso del giugno scorso, è riuscito nell’impresa di spazzare via l’intero entourage bossiano, spacciando un semplice ricambio di classe dirigente per un vera e propria operazione di “pulizia etica”. Per non esagerare, e per evitare una scissione che altrimenti sarebbe stata inevitabile, ha scelto di salvare l’immagine del vecchio leader, ma si è al contempo adoperato con tutte le sue forze per isolarlo in una posizione di mera rappresentanza. In questo modo è riuscito contemporaneamente ad evitare la scissione, a cannibalizzare il partito e a spacciarsi come leghista puro ed integerrimo agli occhi della base. L’operazione politica è stata veramente notevole, ed anche l’impegno profuso nel tentativo di cambiare l’immagine del partito, per renderlo allettante anche alle classi moderate e borghesi, è stato significativo. Dopo la batosta delle amministrative del 2012, inevitabile e sostanzialmente messa già in preventivo, i sondaggi hanno visto un progressivo e costante ritorno alla crescita.
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Se il Carroccio è ancora circa alla metà delle percentuali precedenti alla crisi, è innegabile che ci sia stata una reazione, e che essa non sia solo una semplice trovata mediatica ma la conseguenza di una vera e propria ridefinizione politica.
Proprio in questo delicato momento di rilancio, a Maroni si è presentata una grande opportunità. Una opportunità che Bossi, in trent’anni di leghismo, non ha mai concretamente avuto. La caduta della giunta Formigoni ha fatto precipitare verso le elezioni la Lombardia. Il pesce grosso: il più grosso possibile per i leghisti.
[ad]L’unica grande regione del nord non ancora nelle loro mani. Per essere precisi, l’opportunità non consisteva tanto nel semplice fatto di poter concorrere a questa competizione con una immagine rinnovata rispetto a quella dell’anno prima, quanto nel fatto di potervi partecipare come unico soggetto strutturato nel centrodestra. Nel 1995, in un momento di fortissimo successo leghista, solo pochi mesi dopo la rottura con Berlusconi e l’inizio della fase apertamente secessionista, Bossi candidò Speroni per il Pirellone e la Lega ottenne il 18,7% dei voti a livello regionale. Ma a quel tempo, il Formigoni di una rampante Forza Italia ebbe facilmente la meglio contro il centrosinistra, anche senza l’appoggio dei leghisti. Ciò che è cambiato oggi, e che fa la fortuna di Maroni rispetto al Bossi di 18 anni fa, è l’inesistenza di Berlusconi. Nel 1995 FI e AN presero assieme quasi il 40% dei voti lombardi: oggi il PDL si accinge a collocarsi attorno al 15%. Mentre allora era Forza Italia il baricentro, il polo di attrazione del centrodestra, oggi è la Lega a recitare questo ruolo (non perché sia più grande del PDL, ma perché a differenza di quest’ultimo, ha una linea politica chiara). Maroni ha fiutato la grande occasione, e ci si è buttato con tutto il suo peso.
Contrariamente rispetto al Bossi di allora, Maroni si è candidato in prima persona, mettendo sul piatto la sua immagine, stimata e riconosciuta anche al di fuori del partito. Perfettamente consapevole di quanto gli fosse necessaria l’alleanza con ciò che resta del PDL per avere concrete speranze di successo, ma anche di quanto questa alleanza costasse alla sua base elettorale solo recentemente ripresasi, Maroni ha deciso di far pesare in modo assolutamente prepotente la sua posizione di forza, e ha ottenuto da Berlusconi sostanzialmente tutto, sia sotto il profilo programmatico, sia sotto il profilo delle candidature (persino di quelle a Roma).
L’opportunità è ghiotta davvero: pur guidando un partito ben inferiore a quello che soli tre anni fa prendeva il 26% dei voti regionali, Maroni ha la possibilità di diventare presidente della Regione più grande d’Italia, di annientare definitivamente il suo alleato d’area (da parte sua, sorprendentemente ansioso di farsi annichilire) e di completare il tridente nordico con Zaia e Cota. Un Nord interamente verde è un’arma potentissima, in grado di porre condizioni a Roma come mai era stato possibile fare prima. Sarebbe un vero e proprio trionfo.
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Ma, esattamente come nel gioco d’azzardo, quando sul tavolo la posta è alta, si rischia di vincere molto, ma si rischia di perdere altrettanto. Se Maroni dovesse perdere (e non è affatto escluso che questo avvenga), dal trionfo si passerebbe rapidamente alla catastrofe. È verissimo che la sua linea politica sta portando nuovi consensi, ma è altrettanto vero che salire nei sondaggi è abbastanza facile quando il partito è ridotto ai minimi termini e la linea politica alternativa alla tua è mediaticamente additata come la linea della corruzione e del malaffare.
[ad]I bossiani non si sono affatto estinti: sono ancora lì, più frustrati e agguerriti che mai, e molti tramano la rivincita, o addirittura la scissione. È vero che molti voti sono stati riguadagnati, ma è altrettanto vero che molto del voto più autenticamente di protesta se n’è volato verso Grillo, e certo non è allettato dalla Lega in doppio petto di stile maroniano più di quanto non lo sia dalla Lega da sagra paesana di stile bossiano. Inoltre, Il troncone veneto del partito, che è stato fondamentale nel colpo di mano dell’anno scorso, è furibondo per l’alleanza con Berlusconi, che gli toglie voti senza dargli nulla in cambio. Maroni, consapevole della situazione, ha già dichiarato che rinuncerà alla segreteria sia in caso di vittoria che in caso di sconfitta, ed è evidente che il nuovo segretario in pectore è il veronese Tosi.
Ma Bossi ha dichiarato che ha intenzione di ricandidarsi alla segreteria. Se Maroni dovesse vincere al Pirellone, probabilmente questa candidatura cadrebbe, ma se dovesse perdere, molto difficilmente i bossiani accetteranno di fare ancora la minoranza interna. E la scissione Bossi-Maroni, per la Lega, sarebbe l’anticamera della fine.