La Sinistra radicale, nel primo quindicennio della Seconda Repubblica, è stata un rilevantissimo fattore della politica italiana. Del resto, era impossibile pensare che così non fosse, se si pensa che la caratteristica principale del sistema politico di questo Paese è stata, per l’intero cinquantennio postbellico, la presenza del maggiore partito comunista del mondo occidentale.
La nascita del bipolarismo di coalizione ha posto la sinistra radicale di fronte al dilemma fra la prospettiva di governo e quella d’opposizione.
[ad]Dilaniata da questo dubbio, dal 1994 essa ha dovuto farvi i conti con una cadenza costante, ovvero ad ogni elezione politica. È interessante dare una occhiata al passato recente per rendersi conto di quanto questo tema sia attuale nella bipartizione fra Vendola e Ingroia che oggi vediamo.
Nel 1994, sia i Verdi che Rifondazione Comunista parteciparono convintamente alla “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, ottenendo complessivamente il 9% circa dei consensi. Nel 1996 Rifondazione scelse una collocazione autonoma, ma strinse un patto di desistenza con l’Ulivo, che gli permise di non perdere voti, ed anzi di guadagnarne, salendo da sola all’8,6% (cui si aggiunge il 2,5% dei Verdi).
La scelta di partecipare al primo Governo Prodi ha spaccato irrimediabilmente la sinistra italiana. La scissione di Cossutta e Diliberto ha certificato una divisione che oggi non è ancora stata sanata.
Nel 2001, di nuovo, Rifondazione Comunista sceglie una collocazione autonoma, ma ancora non si decide a fare lo strappo definitivo, non presentandosi nei collegi della Camera per avvantaggiare l’Ulivo (cosiddetto “patto di non belligeranza”).
Il blocco radicale si confermò al 9% complessivo, ma la evidente contrazione elettorale dell’ala massimalista fu decisiva per convincerla a tornare nell’alveo del centrosinistra in occasione delle elezioni del 2006. Il ritorno in massa in coalizione coincide con una nuova espansione elettorale, che porta Rifondazione, i Comunisti italiani e i Verdi al 10,2% complessivo.
Di nuovo la sinistra radicale italiana fallisce clamorosamente nella sua seconda prova di governo: si dimostra un alleato instabile e rissoso. Convivenza problematica che si traduce nella scelta della cosiddetta “sinistra riformista” di lasciare la sinistra radicale fuori dalla coalizione di Veltroni nel 2008. È la debacle: PRC, PDCI, Verdi e Sinistra democratica (i diessini contrari alla nascita del PD) si fermano ad un misero 3,1%, che li esclude dal Parlamento per la prima volta nella loro storia.
Quindi, un’area politica oscillante attorno al 10% dell’elettorato italiano è riuscita a mantenere questa quota di consensi sino a quando è rimasta in qualche modo agganciata alla coalizione di centrosinistra.
Sia nel 1996 che nel 2001, anche coloro che assunsero una posizione autonoma e oppositiva, non si decisero mai a recidere del tutto i cordoni, consapevoli delle nefaste conseguenze cui questo avrebbe portato.
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[ad]La prima volta che la rottura è avvenuta per davvero e senza eccezioni, è stata la catastrofe. I flussi elettorali mostrarono chiaramente due fenomeni simultanei: una dose massiccia di astensionismo e un evidente movimento di elettori a favore del centrosinistra (il famoso “voto utile”). Da una parte dunque, insoddisfazione, dall’altra comportamento strategico degli elettori.
La terribile sconfitta subita è stata propedeutica a far esplodere definitivamente la frattura fra governisti e oppositori.
Una frattura che sino ad allora era rimasta in qualche modo sottaciuta nella conformazione dei partiti ma che è risultata al contrario evidente nel comportamento politico dei loro esponenti in entrambe le esperienze di governo che essi hanno vissuto.
È significativo notare come, una volta fuori dalla rappresentanza nazionale, questa frattura si sia manifestata, di colpo e in modo drammatico, in tutti i partiti che avevano dato vita al cartello della Sinistra Arcobaleno. Quattro partiti, quattro scissioni.
I governisti dei quattro soggetti politici in questione si sono uniti nel nuovo partito di Vendola, Sinistra Ecologia e Libertà, mentre le correnti più radicali e massimaliste se ne sono tenute fuori: chi, come i Verdi, cercando di rilanciarsi autonomamente, chi, come PRC e PDCI (oltre che uno spezzone di SD), agglomerandosi in un nuovo soggetto, la Federazione della Sinistra.
Dopo tre anni di competizione d’area a livello di elezioni regionali e amministrative, oggi i nodi sono venuti finalmente al pettine. La scelta di Bersani di fare un accordo con Vendola ma di escludere tutti gli altri ha identificato in modo inequivocabile le posizioni politiche difformi. Fuori dalla coalizione di centrosinistra, ed in opposizione ad essa, è sorto un nuovo agglomerato di sinistra radicale. “Rivoluione civile” guidato da Antonio Ingroia, che (oltre a candidare vari esponenti civici) unisce PRC, PDCI, i Verdi e ciò che resta di una IDV decimata dagli scandali e annichilita dalla concorrenza di Grillo.
Oggi, dopo venti anni di incertezza, durante i quali questa domanda non è stata loro posta in modo esplicito e chiaro, gli elettori della sinistra radicale italiana hanno la possibilità di scegliere fra una sinistra di governo e una sinistra d’opposizione. La sfida tra Vendola e Ingroia è una vera e propria resa dei conti fra linee politiche alternative. Da quando la sinistra radicale si è posta il problema se partecipare o meno ai “governi borghesi” la questione non è mai stata risolta definitivamente.
Immagine idealtipica di questa ambiguità di fondo è quella, evocata molto spesso, dei ministri in piazza a manifestare contro il loro stesso governo. Ebbene. Stavolta saranno gli elettori a decidere se l’ambizione della sinistra radicale italiana è quella di stare in piazza o dentro un ministero.
Ma il contesto normativo e strategico di contorno non è affatto neutrale. Alle europee del 2009 i due soggetti si presentarono uno contro l’altro, e rimasero entrambi sotto la soglia del 4%. Oggi il rischio è lo stesso, ma a correrlo è solo uno di loro: la soglia del 4%, alle politiche, vale infatti solo per chi corre non coalizzato, e quindi Vendola ne è dispensato.
A questo si aggiunge un’altra dinamica, che si pone alle politiche ma non alle europee: quella del “voto utile” ad accaparrarsi il premio di maggioranza. Prospettiva molto attraente per un elettorato attento ed informato come quello in questione, che sa benissimo di correre il rischio di regalare qualche regione a Berlusconi. È verissimo che la somma di PRC, PDCI, Verdi e IDV sembrerebbe proiettarsi oltre la soglia del 4%, e che i sondaggi sembrano averlo testimoniato sino all’ultimo, ma forse nessuno si ricorda che al momento del blackout sondaggistico di due settimane anteriore alle elezioni del 2008 la Sinistra Arcobaleno era data oltre il 7%.
Il voto utile e l’astensionismo portarono ad un tracollo che i sondaggi non avevano assolutamente previsto, ed allora l’elettorato di sinistra radicale non aveva nemmeno una “seconda scelta” come quella che rappresenta oggi SEL. Insomma, in questa sfida ventennale, i meccanismi della legge elettorale fanno occupare a Vendola una posizione decisamente avvantaggiata, mentre per Ingroia, al contrario, la strada è a dir poco in salita.