Il Governo Monti e la “strana maggioranza”: un anno di scontri ed incontri
Lavoro
Altra questione importante, la riforma del mercato del lavoro, riforma che nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto facilitare l’ingresso di giovani e donne nel mercato, a fronte di una maggiore dinamicità (leggasi flessibilità) del mercato stesso. Si badi bene, “flessibilità buona”, non quella “deleteria” che si è invece instaurata da un decennio a questa parte.
[ad]Curiosamente, il dibattito fra esperti si è sviluppato inizialmente nell’area Pd, con le idee del giuslavorista Ichino (poi autore del programma sul lavoro del Monti candidato) da una parte e quelle dell’ex-ministro Damiano dall’altra. Il governo si è mosso sin dall’inizio chiarendo che non si sarebbe parlato solo di Art. 18 – che anzi sarebbe stato l’ultimo argomento da trattare – e dando spazio alle rappresentanze sociali, sia con incontri bilaterali che con tavoli comuni, dimostrando per un verso una determinazione forte ad arrivare al risultato, dall’altro l’interesse di coinvolgere le parti sociali in una decisione prevedibilmente indigesta: il capolavoro del ministro Fornero è stato quello arrivare ad un accordo sull’Art.18 con il sì di Cisl, Uil e Ugl, sì poi parzialmente rinnegato appena due giorni dopo la firma da Bonanni ed Angeletti.
Si diceva del Pd, ed in effetti è stato proprio il Pd il primo ad intervenire, chiamato in causa dalla Cgil, per modificare almeno in parte il nuovo Art.18, ed ottenere norme che consentano la partecipazione dei sindacati rappresentativi nelle RSU, anche se non firmatari dei contratti (in sostanza, evitare altri casi Fiat-Fiom). La risposta del Pdl è stata quella di schierarsi in difesa delle organizzazioni datoriali, convenendo con l’ex presidente Marcegaglia sulla necessità di aumentare la flessibilità in entrata a fronte di un arretramento sulla flessibilità in uscita. Ad onor del vero, che le due cose si sarebbero dovute tenere insieme, l’aveva premesso la stessa ministro Fornero.
La discrezionalità lasciata al giudice, sulla possibilità di reintegrare un lavoratore licenziato per insussistente motivo economico – voluta da Cgil e Bersani per evitare un uso strumentale di tale clausola di licenziamento – infatti mal si adatta al giudizio che Alfano e tutto il Pdl hanno della magistratura (o della “giurisprudenza in materia”, come ha tenuto a precisare lo stesso Alfano ad un convegno di Confagricoltura), rea di privilegiare aprioristicamente la tutela del posto di lavoro. Di contro, la gran parte delle associazioni datoriali ha giudicato troppo stringenti – e poco adatte alle necessità soprattutto delle Pmi e delle imprese agricole – le norme relative all’ingresso nel mercato del lavoro, che penalizzeranno i contratti a termine – di cui sono aumentati i costi – e le ”sedicenti” partite iva, per cui si sono aperti ampi spazi per l’azione del Pdl.
Il testo è andato in discussione alle Camere sotto la forma di Disegno di Legge (per favorire la discussione, mentre il Pdl avrebbe preferito un decreto, per uniformità rispetto all’iter sulle liberalizzazioni). A causa delle critiche di Confindustria, i più attivi della maggioranza nel contrastare la riforma nel passaggio in Senato sono stati Alfano e Gasparri, salvo poi arrivare a degli emendamenti concordati tra le forze di maggioranza ed il governo per approvare rapidamente la fiducia. Fiducia che al Senato è stata votata alla fine di maggio, prevedendo una minore discrezionalità del giudice ed un maggiore ancoraggio ai CCNL per quanto riguarda i licenziamenti.
Il conflitto tra le parti in causa è continuato anche dopo, però, pur con le limitazioni dovute alla fiducia. Soprattutto sul fronte sindacale, dove le dichiarazioni della Camusso sono state molto aspre, e quelle di Squinzi addirittura triviali. Sul fronte parlamentare, è stata la necessità di anticipare il voto di fiducia alla Camera (dai primi di luglio alla fine di giugno in modo da consentire al Governo in carica di presentarsi ai vertici europei con un traguardo raggiunto) a riaprire la discussione: per il Pd, ciò si poteva fare a patto di votare contemporaneamente anche sugli esodati, per il Pdl era invece necessario cambiare le norme sulla flessibilità in entrata (Brunetta era arrivato a “riscrivere” la riforma, salvo poi lasciar perdere per la contrarietà di Alfano e Berlusconi). È toccato quindi all’UdC ed a Fli far da paciere (“il tema esodati interessa anche a noi, ma non per questo si può bloccare la riforma”, affermava a metà giugno il centrista Galletti). Con quattro fiducie – e la garanzia di un successivo esame di alcuni nodi lasciati irrisolti – la riforma è diventata legge appena in tempo per il vertice europeo di fine giugno, quello in cui il Premier Monti ottenne le prime “vittorie” nei confronti della Cancelliera Merkel.
(Continua a leggere cliccando su “4”)