Bersani prova del nove tra Grillo Pdl Quirinale
[ad]Triste è quel tempo che ha bisogno di dare cattive interpretazioni alla Costituzione per salvare i suoi piccoli eroi al tramonto. In Italia Bene Comune è la malinconia principalmente del suo leader Pierluigi Bersani uscito inaspettatamente bocciato – almeno a prendere per buone le previsioni di media e stregoni – dalle urne, che non si rassegna a passare la mano, anzi a “far girare la ruota” per assecondare un lessico oramai ripudiato anche nelle bettole.]
Le conseguenze, invece, stanno diventando drammaticamente da copione: Bersani non se ne vuole andare, così l’unico mandato pieno desiderato lo sta ricevendo in queste ore dalla direzione nazionale del suo partito. E già in casa democrat l’allineamento generale al pensiero politico del segretario ha cominciato a scricchiolare.
Renzi e Veltroni hanno deciso di abbandonare la riunione prima che qualcuno li trascinasse al microfono a parlare. L’ex premier D’Alema, invece, ha avuto meno imbarazzo a contestare la logicità non dell’incarico a Bersani ma della chiamata generale alle armi per resistere all’assedio del mondo partorito dalle elezioni del 24-25 febbraio.
Grillo, il Pdl o addirittura lo stesso Quirinale. Fin dalle ore successive alle proiezioni che consegnavano il paese all’ingovernabilità con una situazione di hung parliament, Napolitano si è indirizzato su due direttrici: nessuna subordinata al suo lavoro di consultazioni (va esperita ogni strada prima di pensare ad un precipitoso ritorno alle urne, con buona pace del “costituzionalista” Fassina) e nessun mandato a governi di minoranza.
Se sul primo punto gli intenti bellicosi del team del segretario si sono scontrati con un’indiscussa prerogativa costituzionale – costringendo lo stesso Bersani a rassicurare che il Pd non tenterà nessuna prevaricazione – non meno pericoloso è l’arroccamento sul nome del segretario per tentare di mettere su una maggioranza al Senato il giorno del voto in aula sulla fiducia.
Un intento contrario a quanto dice la Costituzione: il principio è stato ben sviscerato dal senatore Stefano Ceccanti (di mestiere docente di diritto pubblico comparato). Per ottenere un mandato dal Presidente della Repubblica un aspirante premier deve rispettare contemporaneamente due condizioni: il numero legale in una votazione sulla fiducia in entrambe le Camere, un numero di voti favorevoli superiore a quelli contrari (al Senato si conteggiano come tali anche le astensioni, che alzano il quorum).
Si potrebbe aggiungere che in ogni forma di governo parlamentare “tendenzialmente” assemblare si fanno accordi di coalizione per raggiungere stabilmente la maggioranza. Solo nel presidenzialismo si può cercare di volta in volta un accordo con chi ci sta. Proprio perché nei sistemi presidenziali (dagli Stati Uniti alla Regione Sicilia, citata a sproposito come caso di scuola) non esiste un legame giuridico di fiducia fra governo e Parlamento. In Italia, invece, ogni governo deve avere una maggioranza parlamentare sempre pronta a votare la fiducia e ogni tentativo in passato di lavorare come se ci fosse il presidenzialismo ha portato soltanto a ingaggiare bracci di ferro, trattative sospette per far cambiare casacca ai parlamentari e rovinose sconfitte quando si è arrivati in aula senza avere i numeri (Prodi docet).
(Per continuare la lettura cliccate su “2”)