Secondo i sondaggi pubblicati nei giorni scorsi, in Svezia i Moderati del premier Reinfeldt oscillano tra il 28,1% e il 29,1% in vista delle prossime elezioni. I socialdemocratici all’opposizione tra il 31,9% e il 33,1%. La coalizione di governo è tra il 41,2% e il 41,3%. Il centrosinistra tra il 47,6% e il 47,7%. Bisogna partire da questi numeri per capire alcune delle cose di cui si è parlato in Svezia in questa settimana. Prima considerazione: il trend non cambia. Guadagnano un po’ i laburisti e perdono un po’ i Moderati. Variazioni minime, che però hanno innescato lo stesso ragionamenti di largo respiro.
[ad]Ad esempio il Dagens Nyheter ha scritto che, dopo aver dato il proprio voto ai Moderati, molto elettori socialdemocratici stanno tornando a casa. Una tendenza che potrebbe accentuarsi nei prossimi mesi. Ma già con questi numeri una vittoria elettorale per l’attuale governo appare impresa impossibile. Kent Persson, segretario del partito dei Moderati, ha ammesso che per la coalizione di centrodestra c’è molto da fare: bisogna ripensare la propria politica alla luce delle nuove sfide. Occorre, ha proseguito, che ciascuno dei quattro partiti della maggioranza si impegni per riconquistare voti. Ma chi guiderà la pattuglia alle elezioni del 2014? Toccherà ancora a Reinfeldt? Secondo indiscrezioni di stampa, il premier entro fine marzo potrebbe lasciare la guida dei Moderati all’attuale ministro delle Finanze Anders Borg che così avrebbe tempo per preparare la competizione elettorale.
Tutti hanno smentito, Reinfeldt compreso. Ma non è la prima volta che teorie di questo tipo trovano spazio. E non è la prima volta che si fa il nome di Borg per il dopo- Reinfeldt. Già qualche settimana fa, nel corso del World Economico Forum di Davos, il ministro delle Finanze s’era trovato a dover affrontare l’argomento: “I Moderati un leader ce l’hanno già” aveva detto, “il mio compito è fare il ministro delle Finanze e non ho altre ambizioni”. Certo è che se si volesse scommettere qualche soldo su chi guiderà i Moderati in futuro, Borg sarebbe un’ottima scelta.
In Norvegia la campagna elettorale è invece in una fase molto più avanzata. Si vota a settembre e il livello dello scontro sale di settimana in settimana. Il primo ministro laburista Stoltenberg in questi giorni è tornato a dire che una nuova crisi dell’eurozona potrebbe danneggiare anche l’economia norvegese, fino a oggi rimasta fuori dalla tempesta. Dall’opposizione si è levata la voce di Erna Solberg, leader della Destra in testa secondo i sondaggi: non è la prima volta che il premier usa parole simili, dice Solberg, sarebbe ora che facesse qualcosa. La ricetta della Destra prevede un taglio alla spesa pubblica, meno tasse, incentivi per le aziende che vogliono puntare sulla ricerca e lo sviluppo. Insomma una strategia economica diversa. Ma gli attacchi al governo arrivano anche per altre vie. Il Partito del Progresso, seconda forza conservatrice del paese, ha denunciato: i laburisti in passato hanno consentito una immigrazione incontrollata che nel giro di qualche anno renderà i norvegesi minoranza a casa loro. Ipotesi smentita dalle statistiche e dagli esperti, ma è il segnale politico che conta: il Partito del Progresso si fa sempre più aggressivo. La caccia ai voti è aperta.
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In Finlandia, invece, il governo ha di fronte a sé una serie di ostacoli estremamente concreti: una manovra di bilancio in primavera, un mercato del lavoro che attende riforme, sindacati e imprese che faticano a trovare un’intesa. Timo Soini, leader dei Veri Finlandesi all’opposizione, sabato scorso è arrivato a ipotizzare elezioni anticipate. Per Soini i segnali ci sono tutti: rapporti sempre più tesi tra Partito di Coalizione Nazionale e Socialdemocratici (i due principali partiti di governo, su posizioni molto diverse), aspettative troppo alte, obiettivi irraggiungibili nel giro di poche settimane. Insomma una situazione complicata che potrebbe rivelarsi un vicolo cieco. Il quadro dipinto da Soini appare più fosco di quel che in effetti è: ma è innegabile che a Helsinki il governo abbia di fronte una primavera ricca di sfide.
[ad]Peggio sta l’esecutivo danese. Il piano per la crescita presentato la scorsa settimana dalla premier laburista Helle Thorning-Schmidt ha sollevato un polverone. Il passare dei giorni non ha raffreddato gli animi. Giovedì scorso il quotidiano Politiken riportava un sondaggio: il 51% degli elettori del Partito Popolare Socialista ritiene che sia ora di abbandonare il governo. L’Alleanza Rosso-Verde non è intenzionata ad appoggiare un piano che finanzia i tagli alle tasse delle imprese con una riduzione della spesa nel sociale. I Liberali, che invece hanno giudicato positivamente il piano, chiedono sgravi fiscali ancor più massicci per le aziende. Il partito laburista finisce così per ritrovarsi sotto il fuoco amico e nemico. I sondaggi sono negativi ma questa non è più una novità. Quel che c’è di nuovo è che l’esecutivo guidato dai laburisti deve ormai fare i conti con una accusa precisa: condurre politiche più di destra del governo di destra che l’ha preceduto. La pensano così molti danesi ma anche molti membri del partito socialdemocratico, convinti che questa strada porti solo a un disastro politico.
Incontro a un disastro elettorale sembra avviata pure l’Alleanza Socialdemocratica che governa l’Islanda insieme alla Sinistra Movimento-Verde: le elezioni di fine aprile si avvicinano ma il partito non riesce a invertire la rotta e sarebbe sceso al 12,8%. I due partiti conservatori sono avanti: al 29% il Partito Indipendentista, al 26,1% il Partito Progressista. Gli indecisi restano tanti ma l’esito elettorale sembra già scritto.
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