Il nodo della discordia, almeno in Senato
[ad]Prima Silvio Berlusconi le fece realizzare come regalo di Natale per i senatori pidiellini, con tanto di loghino bordato in oro, poi le fece fare per tutti i parlamentari come grazioso dono della Presidenza del Consiglio; eppure, di esemplari della cravatta per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, a partire dal 15 di questo mese alle Camere se ne vedranno pochine, e non solo perché l’anno giusto per indossarle ormai è passato da un pezzo.
Le elezioni di febbraio hanno determinato un tasso di ricambio degli inquilini di Montecitorio e Palazzo Madama di proporzioni enormi, davvero senza precedenti: coloro che hanno ricevuto l’accessorio nella vecchia legislatura e sono tornati nelle aule in quella che sta per iniziare, potendo dunque farsi il nodo con quella preziosa striscia di seta, sono una vera minoranza.
Patriottica o meno, tuttavia, le cravatte dovranno figurare comunque sugli onorevoli colletti, per lo meno dei neosenatori maschi. Regole scritte e – soprattutto – consultabili dai “comuni mortali” ce ne sono pochissime, ma sul fatto che a Palazzo Madama quel nodo intorno al collo debba spuntare sembrano esserci pochi dubbi: per questo il senatore a vita Emilio Colombo, che presiederà la prima seduta, ha minacciato di non fare nemmeno entrare i neoeletti del MoVimento 5 Stelle (e anche quelli di altre formazioni, si suppone) qualora fossero sprovvisti di giacca e cravatta. In fondo è stato sempre così, da quando il Senato esiste. Per carità, la cravatta ha una storia ben più antica, se è vero che quella striscia di tessuto prende il nome dai soldati croati che la indossavano in Francia in pieno Seicento (ma la mettevano ancora prima i Romani e la chiamavano focale), eppure quel nodo, per tradurre l’inglese tie, è da sempre parte dell’abbigliamento formale ed elegante e, in un luogo di tradizione come il Senato, sarebbe difficile pretendere qualcosa di diverso.
Il problema di avere il collo libero, va detto, nessuno se l’era davvero posto almeno fino agli anni Settanta o Ottanta, ma negli ultimi anni c’è chi si è premurato di ribadirlo chiaramente, contro ogni gusto stravagante e anche contro le tentazioni delle calure estive (prima dell’era dell’aria condizionata, s’intende). Per dire, nel 2008, i senatori questori – coloro che, da regolamento parlamentare, sovrintendono al cerimoniale e alla “polizia”, quindi all’ordine pubblico e al decoro dell’aula – hanno voluto precisare che i frequentatori del ristorante dei senatori devono «conformarsi nella cura del proprio abbigliamento alle tradizionali regole di decoro del Senato (giacca e cravatta per i signori e abbigliamento sobrio per le signore)».
A chi tocca e chi sfugge
La regola, in sé, vale per tutti quelli che mettano piede in uno qualunque dei palazzi del Senato: Palazzo Madama, certamente, ma anche le altre strutture come Palazzo Giustiniani e Palazzo della Minerva (per lo meno quando ci sono eventi e convegni, visto che quell’edificio ospita la Biblioteca del Senato e di norma ci si può andare vestiti normalmente). Vale per tutti, si diceva: per i senatori, ovviamente, come pure per i giornalisti, tutti i dipendenti del Senato (o di ditte esterne) e i visitatori, in aula, come nelle tribune o alla buvette. Qualche eccezione naturalmente c’è: sfuggono all’obbligo della cravatta gli alunni delle scuole e i cittadini che visitano il Senato durante le sue aperture al pubblico, come pure – sembra ovvio, ma non si sa mai – chi deve vestire altri abiti da lavoro (come chi si occupa di pulizie o riparazioni) e – ma sono deroghe che si decidono di volta in volta – persone che vestono abiti particolari «in ragione del proprio status o della propria provenienza». Nessuno così ha avuto da ridire in occasione delle varie visite di ecclesiastici oppure quando venne in visita il Dalai Lama: Franco Marini lo accolse a Palazzo Giustiniani, Marcello Pera addirittura a Palazzo Madama.
[ad]Per tutti gli altri, davvero tutti, il nodo al collo è di rigore. L’obbligo è una cosa seria: a controllare pensano i commessi parlamentari e all’entrata «il personale delle portinerie ha l’ordine di vietare l’ingresso in Senato a persone prive di giacca e cravatta o in abbigliamento non consono alla serietà e al decoro dell’Istituto parlamentare» (così hanno voluto ricordare i questori nel maggio del 1994, dopo il primo tsunami parlamentare che probabilmente aveva portato in visita a Palazzo Madama vari personaggi dall’abbigliamento discutibile).
Ogni tanto qualcuno sfugge: per dire, nel 1994 fu ascoltato dalla Commissione sanità il professor Silvio Garattini, che la cravattta non l’aveva; il dottor Valentino Martelli, eletto con An, si domandò se «la sua persistenza nel voler ignorare questo obbligo […] significhi mancanza di rispetto nei confronti del Senato» e qualcuno gliene fece arrivare una. Alla Camera, va detto, le regole sono da tempo meno rigide: il look formale completo è certamente consigliato, ma già almeno dalla VII legislatura – dai tempi della presidenza di Ingrao – l’obbligo della cravatta sembra caduto (tranne per il pubblico ammesso in tribuna e per le manifestazioni che prevedono la presenza del Presidente). Sulla giacca, invece, si transige molto meno: «Non sarà consentito l’accesso a persone che non indossino la giacca, nemmeno se accompagnate da un parlamentare» recita perentorio il cartello posto all’ingresso dei palazzi della Camera.
Un po’ di elasticità a dire il vero c’è: se non si deve entrare a Montecitorio (bensì, per esempio, a Palazzo dei Gruppi) e non ci sono eventi particolari, basta anche una giacca a vento o un giacchino; andare in maniche di camicia, invece, proprio non si può. Neanche se il sole spacca le pietre: «Ma veramente il nostro parlamentare ha detto che potevamo fare senza giacca, tanto c’è caldo» hanno provato a giustificarsi due signori sorridenti dall’accento bresciano, prima di incontrare un deputato che li aveva mandati a chiamare. Niente da fare, la regola valeva anche per loro, così il commesso li ha pregati di attendere ed è sparito per un paio di minuti, per poi ritornare con due giacche di colore blu scuro, che i due hanno indossato non senza qualche perplessità (non si sa se per la norma di abbigliamento o per i dubbi sulla lavanderia), prima di poter finalmente entrare. Qualche giacca in dotazione c’è anche al Senato, così come una manciata di cravatte, per abbigliare debitamente lo sprovvisto di turno. Niente di pregiato ovviamente: cravatte dai colori più disparati e di scarsa o scarsissima qualità («Non le mandiamo neanche in lavanderia, ci costerebbe di più la pulitura» dichiarò nel 2010 all’Espresso il senatore questore Benedetto Ardagna), addirittura già annodate per sveltire la pratica all’ingresso. Una volta terminata la visita, l’accessorio andrebbe restituito: almeno una decina di cravatte l’anno, però, non tornano indietro, chissà poi perché.
Un tocco di Speroni
Se per i visitatori in qualche modo è ammessa l’ignoranza – ma di solito gli assistenti dei senatori si preoccupano di ricordare il codice di abbigliamento – per i senatori il discorso è diverso. Per loro, nessuna possibilità di transigere sulla cravatta, anche se nel tempo si è cercato di interpretare la regola del nodo da collo nel modo più ampio possibile. Fin dall’inizio, per dire, si è considerato perfettamente regolare l’uso del papillon – del resto, è proprio quello che indossano i commessi, maschi o femmine che siano, e a Vittorio Orefice in tanti anni di servizio come notista politico nessuno aveva mai detto nulla – e, più di recente, si è arrivati ad ammettere qualunque accessorio che cinga e chiuda il colletto della camicia. Bando dunque alla cravatta portata su una polo (in quel caso, niente camicie da prestare e ci mancherebbe altro), così come al foulard anche se portato sopra la camicia (forse non stringerà abbastanza); via libera invece, sia pure tra i sospiri dei commessi, al cordoncino di cuoio o di altro materiale, con tanto di pendagli e chiuso a livello del collo da una placchetta o un fermaglio. Gli americani lo chiamano bolo tie, pare sia nato in Ariziona, ma in Italia – vai a capire il motivo – è noto come “cravatta texana”.
[ad]A introdurla per la prima volta nell’austero emiciclo di Palazzo Madama, un uomo (o, a suo modo, un mito) di nome Francesco Enrico Speroni. Ci avevano provato i commessi a non farlo entrare, sostenendo che quel gingillo tintinnante non fosse una vera cravatta: «È una cravatta texana – rispose lui per le spicce nel 1992 –. Io l’ho letto, il regolamento, cosa crede? C’è scritto che bisogna portare la cravatta, ma non c’è scritto che dev’essere una cravatta italiana».
Da allora l’hanno lasciato entrare sempre, per la gioia dei cronisti parlamentari che hanno via via dato conto delle cravatte avventurose che ha sfoggiato nel tempo (per darne un elenco certamente parziale: viola, color senape, oppure con disegnato un alligatore, pesci, tubi di scappamento, aquile, il Sole delle alpi dorato su fondo rosso, la Statua della Libertà, l’effigie di James Dean, il didietro di una pin-up, fino alle sue preferite, quelle con un gruppo di maiali o una caricatura di Bossi pronto a divorare la prima Repubblica da Spadolini a Craxi ad Andreotti). Uniche cravatte che nemmeno lui ha portato, quelle con scritte ben riconoscibili: se non si possono mostrare cartelli in Senato, men che meno le parole possono stare sulle cravatte.
È stato proprio Speroni, in fondo, a far discutere di più i senatori sul codice di abbigliamento. Memorabile la seduta del 13 luglio 1995, in cui prima il vicepresidente Carlo Rognoni, poi il titolare Carlo Scognamiglio dovettero fronteggiare addirittura un dibattito sulla lunghezza delle maniche delle giacche, dopo che il Texano da Busto Arsizio (che Gianfranco Fini non aveva voluto alla guida di Palazzo Madama perché portava «cravatte impresentabili e giacche color fucsia») si era presentato in aula con camicia blu notte a maniche lunghe e collo coreano, bolo tie e giacca sahariana beige a maniche corte. Leggere il resoconto di quella giornata è uno spasso, con Rognoni che si appella «alla sensibilità del senatore Speroni per il rispetto della tradizione» e Speroni che rivendica come in altre assemblee, dal Bundestag tedesco al Parlamento europeo, non c’è obbligo di giacca e cravatta, «prassi ormai borbonica e ottocentesca». «Non posso tenere aperto un dibattito sulle giacche» chiosa costernato Rognoni, mentre Scognamiglio minaccia di sospendere la seduta di fronte a vari senatori che si sfilano giacca e cravatta. «In certi casi, anche senza norme scritte, è evidente il carattere provocatorio dell’atteggiamento che un senatore assume nell’abbigliamento e nel comportamento». E alla buonanima leghista di Francesco Tabladini che segnala «situazioni relative al buon gusto che riguardano alcune signore senatori» che i commessi dovrebbero riprendere, tra il gelido e il faceto il presidente risponde: «Sull’abbigliamento femminile in termini di decoro ho assai meno competenza rispetto a quello maschile». Per sua fortuna, Cicciolina se n’era già andata anche da Montecitorio, e da tempo.
Buon gusto o risparmio energetico?
E pensare che in passato i problemi di abbigliamento erano ben altri. Nello stesso dibattito del 1995, per dire, Sergio Stanzani Ghedini è a Palazzo Madama per i colori di Forza Italia e sottolinea che «ci sono dei limiti obiettivi imposti dal luogo e dalla funzione che svolgiamo»; nel 1979, tuttavia, non aveva dato retta ad Amintore Fanfani, allora seconda carica dello Stato, che aveva preso di mira la sua abitudine di portare il colletto della camicia slacciato (sotto la cravatta ovviamente). Qualcun altro, invece, badava proprio al nodo da collo: «Un giorno era prevista una commemorazione in aula – ricorda oggi, ancora sorridendo, Enzo Palumbo, senatore per il Pli nella IX legislatura – e quella volta io osai presentarmi con una cravatta un po’ colorata, non sgargiante ma effettivamente un po’ colorata. Beh, Francesco Cossiga, che allora era il presidente del Senato, si premurò di farmi trovare una cravatta nera sul tavolo del mio studio: il messaggio fu chiarissimo!»
[ad]Le questioni di gusto, del resto, sarebbero continuate anche più avanti. Alla famosa cena di Natale coi senatori del Pdl in cui furono distribuite le cravatte dei 150 anni d’Italia, Maurizio Gasparri disse scherzando che servivano anche «per dare al senatore Casoli una cravatta per sostituire quelle orrende che usa lui».
Colse la palla al balzo Berlusconi, lui così devoto ai puntaspilli blu di Marinella: «Non possiamo permettere che un nostro senatore abbia cravatte più brutte di quelle di Fini» che, peraltro, in quel periodo sfoggiava una quantità curiosa di nodi da collo rossi.
A prescindere dal colore, più di qualcuno ha provato concretamente a mandare in soffitta quell’accessorio: lo ha fatto Speroni, naturalmente, presentando (anche insieme al collega di partito Francesco Moro) vari ordini del giorno per consentire (almeno agli ospiti) un abbigliamento informale, sostenendo che «la cravatta non è più vista come accessorio indispensabile di distinzione e buon gusto nel vestire», senza mai riuscire nell’intento. Tra gli ultimi a provare una mossa anticravatta (e non solo in Senato), a luglio del 2007, un gruppo di senatori guidati dagli ex Idv Aniello Formisano e Franco Barbato – ma c’era anche il pugnalatore di Prodi Franco Turigliatto – ritenendo che la rinuncia all’accessorio dovesse rispondere addirittura a un logica di risparmio energetico, probabilmente per non sparare a mille l’aria condizionata d’estate. La stessa idea, del resto, era stata lanciata poche settimane prima dal margheritino (ora Pd) Ermete Realacci, sulla scorta di quanto deciso dall’Eni: per lui, d’estate, il Senato come ogni altra amministrazione pubblica avrebbero potuto rinunciare alla cravatta e, se del caso, alleggerire un po’ le prescrizioni sulla giacca, per risparmiare un po’ di energia. Di quelle proposte, tuttavia, si sono perse le tracce: a tutt’oggi, almeno a Palazzo Madama, l’obbligo della cravatta c’è. Ma chissà che gli attivisti del M5S, notoriamente attenti al risparmio energetico, non riescano a cambiare il corso delle cose…