Sarebbero bastati i sondaggi shock, per poter bollare come ‘horribilis’ la settimana politica del partito laburista danese. Sarebbero bastati quelli e invece c’è stato molto altro.
[ad]Ma andiamo con ordine. Le ultime ricerche piazzano i socialdemocratici della premier Thorning-Schmidt tra il 18,5% e il 16,5%: mai così male dal 1898. Difficile mandar giù numeri del genere e difficile non cogliere in sottofondo il suono di un allarme. Ma, come detto, oltre ai sondaggi c’è stato altro. Perché a Copenhagen s’è materializzato lo spettro delle elezioni anticipate. L’Alleanza Rosso-Verde, che non fa parte del governo ma che lo sostiene, ha dichiarato di non voler votare un taglio ai finanziamenti ai comuni, cosa che dovrebbe finire nel bilancio statale per il prossimo anno. Senza i voti dell’Alleanza Rosso-Verde il bilancio non passa e senza bilancio il governo cade. L’alternativa per la premier ci sarebbe: ottenere il sostegno dei Liberali, principale partito di opposizione. Un’ipotesi non impossibile ma che metterebbe il governo in una posizione di debolezza dalla quale sarebbe difficile uscire. È probabile che alla fine i voti dell’Alleanza Rosso-Verde arriveranno ma bisognerà vedere a quale costo. La strategia del partito più a sinistra dello scenario politico danese è chiara: mettere pressione al governo e condizionarne le politiche che in molti (anche all’interno dei laburisti) considerano ormai troppo spostate a destra. Dal partito socialdemocratico s’è provato a gettare acqua sul fuoco. I laburisti dicono di non temere una fine prematura della legislatura, visto che hanno una buona collaborazione con l’Alleanza Rosso-Verde. E aggiungono: siamo andati al voto un anno e mezzo fa per mandar via i conservatori dal governo, vogliamo rimandarceli? Un voto anticipato in effetti porterebbe senza dubbio il centro-destra al potere con una maggioranza che tra l’altro sarebbe larghissima: a oggi il blocco di centrosinistra naviga intorno al 43% contro il 56% dei partiti conservatori. Le prossime settimane chiariranno molto della strada che il governo di Thorning-Schmidt intenderà imboccare.
In Islanda, invece, l’esecutivo è passato indenne attraverso un voto di sfiducia. La proposta era stata avanzata da Þór Saari, deputato del partito Il Movimento. La mozione è stata respinta 32 a 29. Contro il governo hanno votato il partito Indipendentista, il partito Progressista e il Movimento: vale a dire tutte le opposizioni. I voti dell’Alleanza Socialdemocratica, della Sinistra Movimento-Verde e del Futuro Radioso sono stati però più numerosi.
In Norvegia e Finlandia si discute di economia ma non solo. A Helsinki, in agenda c’è ancora la riforma del mercato del lavoro. Le trattative procedono a piccolissimi passi. Da superare c’è sempre lo stesso scoglio: i datori di lavoro non vogliono aumenti salariali, i sindacati li considerano indispensabili. Il governo chiede un accordo in tempi brevi. Non solo. Jutta Urpilainen, ministro delle Finanze e leader del partito laburista, in questi giorni ha dichiarato che per riequilibrare i conti pubblici serve un giusto mix di tagli alla spesa e aumento delle tasse. Di sola austerità, ha detto Urpilainen, non si vive. Serve crescita. Parole che suonano come una critica alle linee guida della politica economica di Bruxelles.
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A Oslo sono cominciati i lavori per l’approvazione del bilancio annuale. Le prospettive economiche del paese sono buone, l’anno delle vere sfide potrebbe essere il 2014. Intanto in questa settimana è andata in scena un’altra puntata dello scontro tra il Partito del Progresso (seconda forza conservatrice del paese) e il governo. Siv Jensen, leader del Partito del Progresso, ha attaccato duramente l’esecutivo: la Norvegia ha perso otto anni per colpa della coalizione rossoverde e ora c’è bisogno di cambiamento, c’è bisogno di idee nuove, c’è bisogno di meno burocrazia, c’è bisogno di abbassare le tasse. La risposta dei laburisti non s’è fatta attendere: “Viviamo nello stesso paese, Siv?” ha domandato con ironia Raymond Johansen, segretario del partito socialdemocratico, che ha ricordato come la Norvegia abbia la più bassa disoccupazione in Europa e possa vantare tassi di crescita superiori alla media.
[ad] Ma da Siv Jensen non sono arrivate solo critiche al governo. Tutti gli elettori che si riconoscono nelle politiche del Partito del Progresso, ha detto, sappiano che alle urne dovranno votare non Destra ma Partito del Progresso. Sembra una frase scontata e invece non lo è. In Norvegia lo scontro elettorale si gioca tra i due grandi schieramenti ma anche all’interno del blocco conservatore, dove Partito del Progresso e Destra sono a caccia di voti per definire i futuri rapporti di forza. Secondo gli ultimi sondaggi, la Destra è al 32% mentre il Partito del Progresso è in grossa rimonta e si piazza al 20,8%. Fossero questi i numeri, da soli i due partiti avrebbero la maggioranza parlamentare.
A Stoccolma il voto è più lontano ma l’attuale maggioranza di centrodestra deve fare qualcosa se vuole avere chance di vittoria. I sondaggi dei giorni scorsi sottolineano una flessione per la coalizione di governo, scesa al 39,6% e dunque sotto la soglia psicologica del 40%. Non accadeva dal 2008. Il blocco rosso-verde attualmente all’opposizione raccoglierebbe il 48% dei voti. La forbice si allarga.
E per un governo che oggi verrebbe sconfitto, un altro la sconfitta l’ha assaporata proprio in questi giorni. Le elezioni svoltesi a inizio settimana in Groenlandia hanno decretato la fine del governo del premier Kuupik Kleist. Il suo partito s’è fermato al 34,4%. Più su sono andati i socialdemocratici che hanno raccolto il 42,8%: quattro anni fa il risultato era stato di poco superiore al 26%. Il partito ottiene così 14 seggi parlamentari su 31. Toccherà ora alla leader Aleqa Hammond avviare i colloqui per la formazione di un governo. Ed è quasi certo che, per la prima volta nella storia della Groenlandia, il premier sarà una donna.