Euro e austerità. Dopo la vittoria del Movimento 5 Stelle alle elezioni politiche è tornato di moda parlare dell’euro e della sua legittimità nel nostro sistema monetario. Capita spesso che persone chiedano come mai non è stato fatto un referendum in illo tempore e tutti ricordano l’inflazione da euro che ha colpito le tasche degli italiani quando la filastrocca che si ripeteva di continuo era “un euro mille lire”.
[ad]Addirittura recentemente qualche estremista ha modificato la storia e i numeri affermando che la Germania è stata favorita nel cambio con l’euro, quando questo in fin dei conti non era altro che una continuazione dell’ECU (European Currency Unit) già esistente dal punto di vista scritturale da parecchi anni e utilizzata come una specie di superindice delle valute dello SME (Sterlina Inglese e Corona Danese comprese, nazioni che poi scelsero di non entrare nell’Unione Monetaria).
Il problema non è stata l’introduzione dell’euro, bensì i mancati presidi sui prezzi e la libertà totale di “adeguamento dei decimali” a negozianti e artigiani, non tutti, sia chiaro, ma molti hanno approssimato a quel “un euro mille lire” e, diciamola tutta, hanno pagato caro il prezzo dell’attuale crisi economica. Ma cosa è successo ai conti dell’Italia? Perché non abbiamo toccato con mano gli effetti benefici della moneta unica?
Ci sono altri, molti aspetti da trattare, ma probabilmente ora è meglio tralasciare l’unione monetaria senza l’unione fiscale o politica. Per questo momento focalizziamoci sull’Italia dopo il 1998 (anno di entrata in vigore dell’euro come moneta scritturale).
Da quella data fino all’esplosione della Crisi dei Debiti Sovrani del 2011 l’Italia ha risparmiato 700 miliardi di euro in termini di inferiori interessi da pagare per il debito. Chi deteneva un mutuo parametrizzato all’Euribor a tre mesi ricorda che nel 2003-2005 sembrava di avere un tasso fisso perché il riferimento oscillava di pochi punti base, contemporaneamente i Titoli di Stato non rendevano tantissimo (ancora oggi molti ricordano i BTp al 12% dei primi anni ’90, illusione di un arricchimento facile), i risparmi si riflessero sugli interessi e quindi aumentò la domanda di mutui e di conseguenza quella di immobili innalzando la quota capitale da pagare a parità di immobile acquistato.
Cosa è stato fatto con quei 700 miliardi non ci è dato sapere, anche se ascoltando Radio 24 e Focus Economia tutti i pomeriggi un’idea ce la possiamo fare: le amministrazioni centrale e locali sono diventate delle vere macchine mangia soldi creando posizioni di rendita per alcuni politici, aumentando il disagio della popolazione e portando alla vittoria elettorale un elemento di rottura con il passato come il Movimento fondato da Beppe Grillo.
Contemporaneamente la Germania guidata da Gerard Schröder varava manovre di austerity e sanava il bilancio statale. Con questa frase è sufficiente comprendere come mai ora la Repubblica Federale di Angela Merkel fa la voce grossa nei confronti dei paesi mediterranei accusati di aver fatto le cicale quando era il momento di fare le formiche.
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[ad]Con le riforme fatte in un periodo di vacche grasse, la Germania ha potuto affrontare la Crisi dei mutui sub prime permettendosi di aiutare le proprie banche con oltre 60 miliardi di euro a fondo perduto (e non prestandoli come nel nostro caso di Monte dei Paschi di Siena) incrementando i fondi per la ricerca e l’innovazione. Tra le scuole di pensiero economico contemporaneo comincia a farsi strada un’ipotesi per cui le posizioni di rendita e situazione di monopolio non hanno la capacità e gli stimoli sufficienti per investire nel futuro e qui nasce un’ulteriore chiave di lettura che disegna i paesi mediterranei come cavalieri erranti nel salvaguardare lo status quo ante assunto con l’introduzione dell’euro.
In forza dell’atteggiamento da formiche la Germania ha quintuplicato le proprie esportazioni nei confronti dei paesi meridionali dell’Unione e la sua bilancia commerciale ha goduto di ottima salute fino al 2012. Alla luce di questi risultati, complice una totale apatia politica ed economica da parte dei Governi partner, Angela Merkel si è fortemente opposta a maggiori elasticità di bilancio imponendo di fatto un piano di austerity alla Grecia, rea di aver falsato i dati per entrare nella moneta comune, capace di distruggere il Paese culla della civiltà con una cura ben peggiore del male: il tessuto sociale è completamente dilaniato e il tanto decantato pareggio di bilancio potrebbe arrivare non prima del 2030.
Da mesi Paul Krugman, premio Nobel per l’economia nel 2008, attacca la politica dell’austerity in quanto contestualizzata nel momento storico sbagliato. Infatti le azioni di politica economica messe in atto dai famosissimi paesi appartenenti al gruppo dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) attraverso manovre necessarie per far cassa immediatamente e tranquillizzare i mercati drogati dagli speculatori, hanno avuto effetti tremendi sul lato dei consumi e quindi, di riflesso, anche sulle esportazioni da parte della Germani che cominciano a vedere qualche segnale negativo.
Se prima, a parità di prezzo, veniva preferito un prodotto tedesco in quanto frutto di maggiore qualità dettata dalla ricerca e l’innovazione figlie delle politiche del governo Schröder, ora la contrazione del potere d’acquisto dei Paesi periferici porta a una diminuzione dei consumi strutturale, la gente non sceglie prodotti di qualità inferiore, semplicemente non li acquista. Basti guardare le statistiche di immatricolazioni delle automobili ormai da anni con dati negativi a doppia cifra.
Krugman ha ragione: il momento storico è sbagliato, complici i mercati dei Titoli di Stato, drogati da grandi investitori fortemente collusi con società di rating e contemporaneamente foraggitori del campagne elettorali di Stati Uniti e altri Paesi, viene chiesto ai Governi periferici di comprimere la già anemica situazione economica per far cassa velocemente e quindi rassicurare i mercati che altrimenti metterebbero in ginocchio i governi esercitando vendite massicce e innalzando lo spread con conseguente avvitamento della situazione causato da maggiori interessi da pagare per rifinanziarsi.
La chiave di volta è una maggiore consapevolezza di una cura somministrata che sta di fatti uccidendo il cavallo, puntando sì a una serie di riforme strutturali più concentrate sul modo con cui gli Stati spendono i loro soldi nell’amministrazione pubblica, ma cercando di trovare risorse per ridare fiato all’economia, se poi per farlo bisogna sforare un po’ i bilanci, potrebbe essere razionalmente comprensibile a fronte di un impegno a sistemare il tutto passata la tempesta perfetta che affligge il mondo da ormai 5 anni. Probabilmente però, oltre a un dialogo con i Governi del nord e la capacità di sintesi tra diverse scuole di pensiero sempre ostaggio di campagne elettorali, bisognerebbe mettere gli speculatori in condizioni di non nuocere ulteriormente in nome della produzione di utili a tutti i costi di cui la società civile non ha finora goduto molto. La carne al fuoco è molta.
Di Ivan Peotta