Nel suo libro-intervista “Per una buona ragione” Pierluigi Bersani, parlando del suo passato da amministratore locale, esprime un concetto molto nobile e per nulla scontato riguardo quello che in molti, a tutti i livelli politici e non, definiscono oramai come “modello emiliano”. Bersani infatti scrive di non amare molto questa definizione utilizzata per definire il governo, capace di garantire efficienza e stabilità politica, nella “rossa” Emilia Romagna, in quanto la definizione stessa rischia di diventare prima o poi un guscio vuoto capace, nella forza della definizione stessa, di rendere statico e poco incline al rinnovamento un’esperienza politica efficiente. Insomma: Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.
[ad]Del resto della linea politica di Bersani in questi anni, perlopiù alla guida del principale partito d’opposizione e del campo di centrosinistra, si possono dire e sostenere le cose più disparate come è bene che sia in democrazia e nella dialettica politica. Ma senz’altro, almeno per quanto mi riguarda, non possiamo non definire Bersani un pensatore di rilievo e un intellettuale politico di tutto rispetto. Se per Gianni Agnelli Ciriaco De Mita, più che un politico, era un “intellettuale della Magna Grecia” Pierluigi Bersani è definibile come un “intellettuale politico della Val Padana”. Indipendentemente dalle nostre teorie sul suo operato. Una cosa è essere dirigenti politici, un’altra è essere grandi pensatori. Spesso le due cose si accompagnano, altre volte no.
Dico questo perché il concetto espresso prima in merito al modello emiliano è forse l’aspetto politicamente più interessante del libro e anche quello che potenzialmente ha anche più probabilità di imporsi sul piano pratico e fattuale. Aggiungendo il fatto che un’azione di questo tipo, supportata e ideata da uno specifico pensiero, appare quanto mai attuale e necessario soprattutto in un periodo in cui si dovrebbe discutere di amministrazioni locali e del governo del territorio e delle città. L’insegnamento che viene dal rigetto di un modello come quello emiliano, che per quanto riguarda l’efficienza e molti altri standard regionali è senz’altro all’avanguardia da molti decenni, di Bersani infatti non è altro che l’allontanamento da un grave rischio della politica: la cristallizzazione e l’immutabilità delle posizioni. Il non mitizzare dei buoni modelli, politici ed amministrativi, non vuol dire odiare, non rispettare o rigettare i modelli stessi. Ma semplicemente non chiuderli in guscio statico capace di imprigionare per sempre una definita modalità della politica. Una modalità che statica non può esserlo in quanto la società e la politica cambiano e dunque anche i differenti approcci all’amministrazione devono mutare per preservare un trend e una tradizione di buona amministrazione.
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[ad]Il rinnovamento come sfida verso il progresso e il miglioramento, dunque. Ma anche il rinnovamento come atto d’amore, teso a preservare un bene di cui ben si sa l’inestimabile valore. Oggi come oggi un’analisi di questo tipo secondo me è mai attuale soprattutto per quanto riguarda alcune amministrazioni strutturalmente di centrosinistra e governate nel corso degli anni da giunte del Pci e dei suoi successivi eredi.
E non solo perché il quadro politico e in ebollizione e forze politiche a tratti anti-sistema (basti pensare alla Lega Nord nella stessa Emilia) in certi casi pescano voti e consensi proprio dal centrosinistra in certi casi anche tra ex elettori e iscritti al Partito Comunista Italiano. Ma senz’altro qualche dato elettorale e politico può aiutarci a comprendere la portata dell’evento.
Alle elezioni regionali del 2010 il governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani è stato confermato governatore della regione da sempre più a sinistra d’Italia. Parlo di questa regione per l’ennesima volta solo a titolo d’esempio in quanto il discorso è legato al cosiddetto “arco appenninico” dove più si è manifestato in maniera omogenea il consenso per la sinistra italiana. Nonostante non corresse alcun rischio (la candidata del centrodestra che sfidava Errani ha ottenuto 15 punti percentuali in meno) Errani ha vinto nettamente ma con un significativo 52,1% dei consensi. Quasi come se non ci fosse più un potente consenso dietro lo schieramento di sinistra o come se si puntasse a tratti solo a vincere anche grazie le debolezze strutturali dell’avversario. A questo risultato può aver influito la “deroga” nei confronti del governatore emiliano che ha corso per un terzo mandato in Regione, e del resto non si tratta di un trend nazionale: infatti nell’altra regione storicamente “rossa” come la Toscana il candidato governatore Rossi non solo si è affermato (cosa che, come per Errani, appariva scontata) ma si è “affermato bene” riuscendo ad ottenere un risultato (59,3% dei voti) capace di contraddistinguere anche politicamente e quindi elettoralmente una tradizione politica e amministrativa regionale.
Il mitizzare dunque e il contraddistinguere eccessivamente per modelli politici alcune scuole amministrative molto spesso può apparire ed essere controproducente, come ben faceva notare Bersani. Ma al tempo stesso la sfida dell’amministrazione e della politica del centrosinistra passa per questo tema e si scontra, come era anche inevitabile, con una contingenza politica più ampia e di livello superiore capace di premiare elettoralmente a livello europeo forze politiche che fanno della xenofobia e del populismo il loro mantra.
Queste forze giocano con la paura. La paura delle conseguenza dell’inevitabile globalizzazione. La paura per “l’esterno”, per lo straniero e per tutto ciò che ne consegue. Con una spirale isolazionista quanto mai pericolosa e controproducente in uno scenario globale sempre più multipolare e interdipendente.
La sinistra invece deve interpretare dei modelli alternativi basati su alcuni valori e principi, a partire da quelli della solidarietà e dell’accoglienza, che molto spesso si scontrano con la paura generale che premia queste forze antisistema.
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[ad]Come può uscire dunque la sinistra dal guado? Perseguendo una politica rinnovata. Ma insistere su un punto che può essere il primo antibiotico contro la politica della paura: la politica della felicità. E non è intendo riferirmi (o almeno, non solo a quello) agli slogan e alle dichiarazioni che molto spesso riguardavano il concetto di felicità nella campagna di Romano Prodi nel 2006. E nemmeno al concetto di “diritto alla felicità” della Costituzione americana che, per quanto attraente, appare contrassegnato da caratteristiche sin troppo diverse da una realtà come la nostra soprattutto nelle sue caratteristiche culturali e religiose. Mi riferisco alla felicità come ad un plus. Ad un qualcosa che la sinistra deve essere capace di dare nel corso delle sue esperienze di governo. Un qualcosa che vada oltre alla mera e sacrosanta buona amministrazione. Una tendenza alla socialità politica, ad un destino comune che si può e si deve esprimere proprio a partire dai nostri comuni, perché l’Italia non è la semplice terra dei comuni ma semplicemente la terra dove questi stessi luoghi d’aggregazione sono nati ed emersi.
In questi giorni in Gran Bretagna, a proposito del nuovo corso quanto mai ancora incerto del Partito Laburista, si sta rispolverando il concetto di “patria” e di “comunità” all’interno del mondo di sinistra. In Italia un dibattito di questo tipo è già avviato anche grazie alle celebrazioni per i 150 anni del nostro paese. Ma deve apparire ancora più chiaro che in una società complessa come la nostra non basta la buona amministrazione, una sanità efficiente e asili nido all’avanguardia e giustamente studiati in ogni parte del mondo. Sono tutte cose importanti. Ma la paura la si sconfigge con qualcosa di più, che non tolga nulla a tutto questo, ma che sia capace di dare un senso ancora più compiuto ad una città, ad una provincia ad una regione che ci rende capaci di guardare all’orizzonte del futuro con la voglia di vivere che ci viene dalla curiosità, dal voler continuare un tragitto insieme perché desiderosi di scoprire quante altre stupende sorprese ha in serbo per noi cittadini il futuro. Lungi dal paragonare il tutto alla frase di Yury Gagarin, quanto mai materialista: “Nella spazio ho visto le stelle, la lune e la terra senza confini e frontiere. Ma non ho visto Dio” verrebbe da dire oggi, semplificando un po’ il tutto: “Ho visto una città ideale, ben amministrata. Ho visto servizi, efficienza e competenza. Ma non ho visto la felicità”.
A noi serve quella felicità. Solo così potremo continuare a vincere e ad incidere sulla nostra comunità raccogliendo la sfida dell’amministrazione locale. Perché è qui che siamo nati e a questo territorio e a questa comunità dobbiamo molto se non tutto.