È stato un errore politicizzare i referendum del 12 e 13 giugno. Il nucleare, l’acqua, l’uguaglianza di fronte alla legge sono questioni troppo importanti per diventare merce di scambio nella partita per la fine prematura dell’Esecutivo. Anche solo per il semplice motivo che un ‘sì’ o un ‘no’ a questi argomenti sopravviverà ben oltre questa classe dirigente. Sono scelte strategiche, che riguardano i nostri figli quanto noi. Per questo andrebbero prese con estrema oculatezza, e nel massimo della consapevolezza e della trasparenza.
Invece il governo ha fatto di tutto per non far svolgere i referendum sull’acqua e soprattutto sul nucleare, o farli svolgere nel massimo della confusione; il servizio pubblico ha iniziato a parlarne con un mese di ritardo e comunque poco e male; i giornali se ne sono accorti soltanto dopo il ballottaggio del 29 e 30 maggio (cioè a una dozzina di giorni dalla consultazione popolare) e quando se ne è iniziato a parlare davvero (cioè, per esempio, in prima serata ad Annozero), è diventato tutto spettacolo e scontro politico, coi tempi e i modi di Adriano Celentano e Daniela Santanchè più che della logica, del diritto e della scienza.
Dal 1995 i referendum abrogativi non ottengono il quorum, e negli ultimi vent’anni l’affluenza ai seggi è crollata dall’80 al 23%. Se chiamare i cittadini a esprimersi significaintrupparli dogmaticamente per il ‘sì’ o per il ‘no’ invece che farli ragionare con la propria testa; se è un modo per banalizzare questioni di capitale importanza e complessità; se diventa solo l’ennesima battaglia all’interno di uno scontro politico infinito invece di un’occasione per dialogare tutti insieme, come vorrebbe la democrazia «partecipata» che piace a tutti ma nessuno pratica, allora forse è meglio che l’istituto prosegua nel suo destino di oblio. Lasciandoci con un’arma in meno di fronte al dramma, vecchio come l’uomo, di doverci fidare della saggezza di pochi per non soccombere all’ignoranza di molti.