Nucleare: il problema delle scorie radioattive (II)

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Come descritto nella Parte I del dossier legato allo smaltimento dei rifiuti radioattivi, nel mondo attualmente vi sono poco meno di 200.000 tonnellate di scorie nucleari, a cui se ne aggiungono – all’attuale ritmo di produzione, che tende a diminuire per via della maggiore efficienza delle centrali e contemporaneamente a crescere per la costruzione di nuovi impianti – oltre 6.500 ogni anno.

Il problema del trattamento e dello stoccaggio delle scorie nucleari è quindi quantomai attuale, e deve essere affrontato in maniera appropriata per non lasciare una pesante eredità alle generazioni future.

[ad]Il problema può essere così sintetizzato: come gestire degli elementi fortemente tossici e radioattivi in modo che non possano cadere nelle mani di organizzazioni terroristiche e non contaminino la biosfera per tempi dell’ordine del milione di anni, per di più in maniera economicamente sostenibile?

Le possibili soluzioni, tentate o anche solo prese in esame, sono sostanzialmente riconducibili a tre filoni principali: immagazzinare il materiale nella biosfera, isolandolo da essa tramite barriere ingegneristiche o naturali; ritrattare il materiale in maniera da diminuirne la pericolosità; allontanare il materiale dalla biosfera. Ciascuna soluzione ha i suoi pro ed i suoi contro, ma nessuna, al giorno d’oggi, è ancora riuscita a soddisfare tutti i requisiti necessari per essere uniformemente adottata dalla comunità internazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi.

Il primo problema con cui bisogna confrontarsi al momento dello stoccaggio delle scorie radioattive è quello del calore: per i primi sei mesi le scorie radioattive sono talmente calde da necessitare di apposite piscine di raffreddamento. Successivamente il materiale può essere maneggiato, ma il calore costituisce una caratteristica rilevante delle scorie per circa un secolo. Ogni modalità di stoccaggio, tecnologica o geologica, deve tenere quindi conto di questo fattore.

Uscite dalla piscina di raffreddamento, le scorie subiscono un processo di vetrificazione – per le scorie di origine militare si iniziano ad utilizzare i primi prototipi di roccia sintetica. La massa così ottenuta viene poi inserita, ancora fusa, dentro cilindri di acciaio inossidabile, a loro volta poi sigillati. In questa forma le scorie radioattive risultano ermeticamente separate dalla biosfera, a meno che forze esterne quali attentati o terremoti distruggano gli involucri, per tempi dell’ordine delle migliaia di anni. Se una tale cifra è sufficiente per uranio e plutonio, risulta invece del tutto inadeguata per gli elementi transuranici. Di fatto nessuna opera ingegneristica umana ha speranze di poter sopravvivere per un milione di anni.

La ricerca di depositi geologici diventa quindi essenziale. Diversi Stati si sono cimentati in una simile impresa: la Finlandia di fatto è l’unico Paese al mondo dove è in corso, sia pure tra mille polemiche, la costruzione di un deposito geologico, presso Olkiluoto. Svezia, Canada e Svizzera sono in fase avanzata di sperimentazione, rispettivamente presso formazioni di granito e di argilla. Gli USA, dopo un travagliato percorso ventennale, hanno invece posto la parola fine al progetto di deposito tufaceo di Yucca Mountain, restando di fatto senza progetti sullo smaltimento delle scorie nucleari.

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[ad]La Germania ha tentato più volte di trovare depositi sicuri, almeno per le scorie meno pericolose, ma senza successo. Particolarmente famoso è il caso della miniera di potassa di Asse, che avrebbe dovuto essere geologicamente isolata per migliaia di anni ed in cui iniziarono a verificarsi le prime infiltrazioni di acqua dopo soli quindici anni dall’utilizzo, con la necessità di una costosa e continua manutenzione e con il recente pericolo aggiunto di crolli della volta della miniera e conseguente dispersione del materiale.

Gli sconvolgimenti della crosta terrestre sono tali da rendere estremamente complessa, da ogni punto di vista, l’individuazione di punti che possano essere considerabili come isolati per centinaia di migliaia di anni. Solo pensando al territorio italiano, nell’ultimo milione di anni sono stati vissuti episodi glaciali di notevole intensità, con l’avanzata dei ghiacciai alpini fino alle porte della Pianura Padana ed il sucessivo ritiro; il mare si è abbassato fino a 140 metri rispetto al livello attuale per poi risollevarsi nuovamente; le spinte della placca africana hanno fatto ruotare ampi settori dell’Italia peninsulare fino a 25°; l’attività vulcanica e quella erosivo-sedimentaria hanno apportato anch’esse numerose modificazioni alla struttura stessa della nostra penisola. Quale ambiente può dare garanzie di isolamento per un milione di anni?

Se la pericolosità delle scorie è la radioattività, allora trasformarle in elementi non radioattivi – magari sfruttando l’energia prodotta nel caso di elementi fissili – dovrebbe essere la soluzione ideale per eliminare una volta per tutte il problema. Il riprocessamento consiste nella separazione, per via chimica, dei materiali che compongono il combustibile esausto, parte del quale risulta essere riutilizzabile per nuove fissioni nucleari. Le tipologie e le quantità di materiali riprocessabili dipendono dalla tecnologia a disposizione nelle nuove centrali. Il riprocessamento è un procedimento estremamente oneroso dal punto di vista economico, oltre che pericoloso; molti Paesi, tra cui gli USA, hanno deciso di non riprocessare le scorie delle proprie centrali.

Attraverso il riprocessamento è possibile gestire gli isotopi dell’uranio presenti nelle scorie già con le normali centrali nucleari. Tali elementi però sono anche i meno problematici a livello di immagazzinamento, in quanto i loro tempi di decadimento, per quanto lunghi, sono decisamente irrisori rispetto a quelli degli elementi transuranici. Questi ultimi hanno inoltre l’ulteriore problema di non essere, in genere, fissili, e quindi di poter essere spaccati in altri elementi – dalla radioattività più bassa e con tempi di dimezzamenti inferiori – solo da particelle ad alta energia, come quelle emesse da un ciclotrone. Tale soluzione diventa però estremamente onerosa sia da punto di vista economico che da quello energetico, diventando di fatto inattuabile. È attualmente in fase di studio un sistema che accoppia fusione deuterio-trizio e fissione in modo da generare tramite la prima neutroni ad altissima energia in grado di provocare la fissione: in questo caso anche gli elementi transuranici potrebbero essere utilizzati; se tale tecnologia riuscirà a superare gli attuali problemi tecnologici – quanto costa un ciclotrone ad alta intensità? Quanti protoni accelerati colpiscono nuclei pesanti e quanti perdono la loro energia con altri processi? – allora si avrà realmente a disposizione una maniera di trattazione delle scorie nucleari più pericolose. L’altra faccia della medaglia è che un simile impianto, almeno allo stato attuale delle conoscenze, renderà l’energia nucleare una fonte estremamente costosa e sicuramente sconveniente rispetto alle fonti rinnovabili o al gas naturale.

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[ad]L’allontanamento delle scorie radioattive dalla biosfera può essere fatto in due direzioni: nello spazio, magari direttamente nel Sole, o verso l’interno della Terra. L’invio di un razzo verso il Sole nasconde tuttavia due gravi problematiche: la prima è naturalmente il costo. Il vettore Ariane 5, dell’ESA, ha un costo per lancio di circa 120 milioni di dollari, circa 100 milioni di euro, e può trasportare un carico netto inferiore alle 10 tonnellate – nella versione più capiente del razzo – in orbita geostazionaria. Non è irragionevole pensare che per arrivare fino al Sole, o ad una posizione nello spazio in cui scaricare le scorie in maniera tale che la forza di gravità le porti al Sole, la quantità di carico debba essere ulteriormente ridotta. Ipotizzando per semplicità di calcolo 6,5 tonnellate, questo significa 1.000 lanci all’anno (100 miliardi di euro) per smaltire le scorie prodotte nell’anno stesso, e altri 30.000 lanci circa (3.000 miliardi di euro) per azzerare il residuo pregresso.

Ovviamente una soluzione del genere non è praticabile dal punto di vista economico, e vi sono anche ragionevoli dubbi sulla sicurezza. L’Ariane 5, come si legge nelle specifiche tecniche del vettore, ha una percentuale di affidabilità del 98% circa. Questo significa che con mille lanci all’anno ragionevolmente una ventina andranno male, liberando mediamente 130 tonnellate di scorie altamente radioattive nell’atmosfera ogni anno. Ciò equivarrebbe alla liberazione di bombe sporche come nessuna organizzazione terroristica potrebbe mai fare, e già dopo il terzo lancio fallito lo stesso patrimonio genetico dell’umanità si potrebbe considerare irrimediabilmente compromesso.

Seppellire le scorie radioattive nelle profondità della Terra porta immediatamente a chiedersi in quale punto. Lo spessore della crosta terrestre spazia dai 5 km della crosta oceanica ai 35 di quella continentale, e la crosta è una barriera che deve essere superata se si vogliono evitare contatti con la biosfera. L’ipotesi di utilizzare i vulcani deve essere naturalmente scartata a priori: in primo luogo il calore non ha impatti sulla radioattività degli elementi, quindi un’eventuale immersione nel magma non risolverebbe il problema; inoltre i vulcani, come è noto, sono condotti verso la superficie della Terra, non verso l’interno. Vulcani ricolmi di scorie – e già pensare di riversare dentro i vulcani del globo oltre 6.500 tonnellate di materiale ogni anno rende facilmente comprensibile la scarsa praticabilità della soluzione – sarebbero a tutti gli effetti dei mortali cannoni puntati verso la biosfera, pronti ad eruttare materiale radioattivo in aggiunta alle normali deiezioni vulcaniche.

Gli unici, veri, punti di ingresso per le profondità della Terra sono le zone di subduzione, in cui una placca terrestre scivola al di sotto di un’altra fino ad immergersi nel mantello; l’esempio più conosciuto è probabilmente la costa occidentale del Sud America, con lo scontro tra la placca di Nazca e quella continentale sudamericana. Le operazioni da fare sarebbero tecnicamente molto complesse: le scorie sarebbero da sigillare nei pressi della zona di subduzione, ben al di sotto del livello del fondale marino, in contenitori sufficienti a isolarle dalla biosfera fino al raggiungimento del mantello terrestre. Oltre ai limiti tecnologici, vi è anche uno spauracchio naturale verso questa tipologia di soluzione: ai movimenti di subduzione di una placca corrisponde quasi sempre un’intensa attività vulcanica da parte della placca sovrastante, con la possibilità che parte del materiale di subduzione invece che finire nel mantello trovi una strada per la superficie. Il rischio che le scorie possano prendere questa strada è oggettivamente troppo alto per rendere anche questa strada realmente praticabile.

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[ad]Non esiste, quindi, una soluzione definitiva. Non si riescono ad immagazzinare le scorie in posti sufficientemente sicuri, in termini di qualità e durata dello stoccaggio. Non si possono allontanare dalla biosfera senza correre rischi tremendi. Non si riescono a trasmutare in elementi meno pericolosi in maniera economicamente vantaggiosi.

Resta una possibilità, che non annulla le giacenze del passato ma permetterebbe quantomeno di non aggravare il problema: non produrre scorie. Il che non significa rinunciare del tutto al nucleare. I reattori al torio, se adeguatamente costruiti, sono in grado di evitare la produzione di materiali transuranici, ovvero la frazione più pericolosa delle scorie. La fusione nucleare, fredda o calda che sia, è estranea al problema dei rifiuti radioattivi. Il nucleare può essere veramente la soluzione definitiva ai problemi energetici dell’umanità, ma di certo non il nucleare di oggi, non il nucleare che si vorrebbe riportare in Italia, che al contrario assomiglia sempre di più ad una spada di Damocle sospesa sulle teste dell’intera umanità.