Manca ormai pochissimo tempo e, come già avvenuto nel 1987, la normativa relativa alla produzione di energia da fonte nucleare torna ad essere oggetto di referendum abrogativo. Nel 1987 la partecipazione al voto fu alta, permettendo con facilità il raggiungimento del quorum, e molto alta fu pure la percentuale di voti favorevoli all’abrogazione, segnando per oltre un ventennio la chiusura della “stagione nucleare”. Proviamo quindi a riassumere, nei suoi punti essenziali, la vicenda lunga e tortuosa che ha investito la storia del quesito referendario sul nucleare, rispetto al quale tutti i cittadini sono chiamati ad esprimersi i prossimi 12 e 13 giugno.
Inizialmente, il quesito per l’abrogazione parziale di alcuni testi normativi recanti disposizioni in materia di energia e, in particolare, di localizzazione e costruzione di nuove centrali nel territorio nazionale italiano per la produzione di energia nucleare, indetto con decreto del Presidente della Repubblica del 23 marzo 2011, investiva:
- la lettera d) del comma 1 dell’articolo 7, relativo alla “Strategia energetica nazionale”, del decreto-legge n. 112 del 2008, che prevedeva la possibilità di ricorrere alla realizzazione, sul territorio nazionale, di impianti di produzione di energia nucleare;
- gli articoli 25 (contenente la delega al Governo in materia nucleare), 26 e 29 della legge n. 99 del 2009, relativo all’individuazione, realizzazione ed esercizio di impianti e attività nucleari;
- l’articolo 133, comma 1, lettera o), del decreto legislativo n. 104 del 2010 sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di energia;
- il decreto legislativo n. 31 del 2010, contenente riferimenti relativi alla disciplina della localizzazione, realizzazione ed esercizio di impianti nucleari.
[ad]La Corte Costituzionale, pronunciandosi sul quesito come appena descritto, con sentenza n. 28 del 12 gennaio 2011, ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare. La Corte ha rilevato che la richiesta referendaria non viola i limiti desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione[1], poiché le leggi delle quali chiede l’abrogazione non rientrano fra quelle per le quali detta norma esclude il ricorso all’istituto referendario, né si pone in contrasto con obblighi internazionali e, in particolare, con il Trattato istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom). Rimane infatti di competenza nazionale lo “stabilire il proprio mix energetico in base alle politiche nazionali in materia”, laddove la normativa Euratom impone solo, una volta che il legislatore nazionale abbia optato per l’energia atomica, misure e standard di garanzia per la protezione della popolazione e dell’ambiente. In definitiva, secondo la Corte, l’inesistenza di un preciso obbligo di realizzare o mantenere in esercizio impianti per la produzione di energia nucleare conduce ad escludere che la richiesta referendaria si ponga in posizione di contrasto con uno specifico obbligo derivante da convenzioni internazionali o da norme comunitarie. Relativamente poi ai requisiti di omogeneità, chiarezza e univocità del quesito, la Corte ha sottolineato che le disposizioni di cui si propone l’abrogazione, benché contenute in molteplici atti legislativi, sono tra loro strettamente connesse, in quanto tutte strumentali a permettere la costruzione o l’esercizio di nuove centrali nucleari[2]. Il fine intrinseco del referendum consiste dunque nell’intento di impedire la realizzazione e la gestione di tali centrali, mediante l’abrogazione di tutte le norme che rendono possibile questo effetto, con la conseguenza che l’elettore può esprimersi su di una questione ben determinata nel contenuto e nelle finalità, con un semplice Sì o No. Secondo la Corte, il quesito, pur caratterizzato dalla tecnica del “ritaglio”, mira a realizzare un effetto di abrogazione puro e semplice della disciplina concernente la realizzazione e gestione di nuove centrali nucleari e, perciò, non ha il carattere della manipolatività, nel senso che mantiene il risultato dell’abrogazione negli spazi normativi della legge e la c.d. normativa di risulta non è quindi estranea al testo, ma riconducibile a una delle volontà ivi enunciate.
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[ad]Successivamente, allo scopo dichiarato di evitare lo svolgimento del referendum, il Governo ha previsto, all’articolo 5 del decreto-legge 31 marzo 2011, n. 34, (c.d. decreto “omnibus”) la “sospensione dell’efficacia di disposizioni del decreto legislativo n. 31 del 2010”. Lo stesso Governo ha poi presentato un emendamento interamente sostitutivo dell’articolo 5, riproponendo di fatto il quesito referendario con modifiche tali da non precludersi, per il futuro, la possibilità di un ritorno all’’energia nucleare. In particolare, il primo comma dell’articolo 5 precisa che, al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche relativamente alla sicurezza nucleare – con il supporto dell’Agenzia per la sicurezza nucleare e tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno prese dalla UE -, non si procede più alla definizione e attuazione del programma sugli impianti nucleari previsto dagli articoli 25 e 26 della legge n. 99 del 2009. Il comma 2, invece, abroga per intero l’articolo 7 del decreto-legge n. 112 del 2008, che prevedeva, nell’ambito della “Strategia energetica nazionale”, anche il ricorso all’energia nucleare, pur reintroducendo, al successivo comma 8, una specifica disciplina della stessa materia, che modifica gli obiettivi della Strategia, eliminando i riferimenti al nucleare e alla promozione delle fonti di energia rinnovabile e dell’efficienza energetica, ma vi inserisce la valorizzazione e lo sviluppo di filiere industriali nazionali nonché un riferimento alla sicurezza nella produzione di energia.
Proprio queste ultime previsioni, nelle intenzioni del Governo, gli avrebbero dovuto dare l’opportunità di riproporre anche in Italia l’opzione nucleare. Tanto è emerso sia dalle dichiarazioni rilasciate dal Presidente del Consiglio, sia da quanto affermato dal Ministro dello Sviluppo economico Romani in sede di discussione in Aula, ovvero la volontà di procedere ad una semplice “revisione del programma nucleare”, e non ad un suo abbandono. Pertanto, l’intenzione del Governo è stata quella di procedere ad una semplice moratoria, rimandando la decisione sulla politica energetica, ma mantenendo inalterata la possibilità di riproporre il nucleare a distanza di tempo. In questa prospettiva, è legittimo intendere la volontà governativa nel senso di un diniego della possibilità dei cittadini di esprimersi in materia di politica nucleare, senza escludere che questa possa essere, nonostante tutto, portata avanti. Inoltre, non è una assurda dietrologia ritenere che tali modifiche normative dell’ultimo secondo si configurino come una “furba” scorciatoia rispetto alla temuta espressione della sovranità popolare, nell’intento di evitare che la maggioranza degli elettori vada a votare su quel referendum che, proprio perché particolarmente “sentito” dai cittadini, potrebbe permettere il raggiungimento del quorum necessario alla validità di tutti e quattro i quesiti e, quindi, anche di quello relativo al legittimo impedimento.
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[ad]Ad ogni modo, approvato in via definitiva il c.d. decreto “omnibus”, il Governo auspicava che non si procedesse al voto, in forza dell’articolo 39 della legge n. 352/1970 sui referendum, che dispone che “se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge, o l’atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce, siano stati abrogati, l’Ufficio centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso”. In merito, tuttavia, la Corte costituzionale è intervenuta con la sentenza 16-17 maggio 1978, n. 68, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 39, nella parte in cui non prevede che se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum è accompagnata da altra disciplina della stessa materia che non modifica né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente, né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettua sulle nuove disposizioni legislative. Spetta, quindi, all’Ufficio centrale per il referendum verificare se, nonostante gli effetti abrogativi della nuova disciplina, la consultazione popolare debba “svolgersi pur sempre”, trasferendo od estendendo la richiesta alla legislazione successiva, al fine di evitare che sia violato l’articolo 75 della Costituzione.
Dunque, non a caso, il 3 giugno 2011 l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione ha disposto con ordinanza il trasferimento della richiesta di abrogazione referendaria relativa alle disposizioni già individuate come “Norme in materia di nuove centrali per la produzione di energia elettrica nucleare” sulle disposizioni di cui all’articolo 5, commi 1 e 8 del decreto-legge 31 marzo 2011, n. 34, c.d. decreto “omnibus”, convertito, con modificazioni, dalla l. 26 maggio 2011, n. 75. Tali disposizioni sono state quindi ritenute “non suscettibili di produrre l’impedimento del corso delle operazioni referendarie”, poiché recano una disciplina che fa “salva, nell’immediato e contro la volontà referendaria, una scelta attuale nuclearista definendo anche le articolazioni e gli strumenti attraverso i quali essa è, e resta, immediatamente operativa”. In sostanza, ad avviso dell’Ufficio centrale, l’intervento normativo operato dal Governo si pone “in contraddizione manifesta con le dichiarate abrogazioni, dà luogo ad una politica flessibile dell’energia, che include e non esclude anche nei tempi più prossimi, la produzione di energia a mezzo di centrali nucleari e vanifica nell’attuale e in modo totale il fine abrogativo della proposta referendaria”.
Successivamente, la Corte Costituzionale si è trovata a dover decidere sull’ammissibilità del nuovo quesito sul nucleare dopo il via libera dato dall’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione: il primo giugno scorso, con una lettera firmata da Gianni Letta, il Governo chiede quindi all’Avvocatura generale dello Stato di “intervenire” all’udienza allo scopo di “evidenziare l’inammissibilità della consultazione”. La Corte, investita della questione, con sentenza n. 174 del 7 giugno 2011, ha a sua volta dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare, come modificata per effetto dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum. La Consulta ha ricordato che, secondo la sentenza n. 68 del 1978, qualora nel corso del procedimento referendario, la disciplina oggetto del quesito sia modificata, all’Ufficio centrale per il referendum spetta accertare se l’intenzione del legislatore sia diversa rispetto alla regolamentazione precedente della materia: qualora, infatti, tale intenzione rimanga “fondamentalmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio che siano state apportate dalle Camere, la corrispondente richiesta non può essere bloccata, perché diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta a mera apparenza”. Diversamente, compete alla Corte Costituzionale verificare che non sussistano eventuali ulteriori ragioni d’inammissibilità rispetto all’articolo 75 della Costituzione ed ai parametri desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione[3]. La Corte ha quindi stabilito che il quesito referendario, nella formulazione risultante dal trasferimento operato dall’Ufficio centrale, sull’articolo 5, commi 1 e 8 del decreto “omnibus”, rispetta tali limiti. In primo luogo, è ribadito il giudizio di ammissibilità espresso con la sentenza n. 28 del 2011, data la “identità della materia oggetto della disciplina originaria e di quella modificata”. In secondo luogo, a giudizio della Consulta, il quesito è connotato da una matrice razionalmente unitaria e possiede i necessari requisiti di chiarezza, omogeneità ed univocità. Infatti, le disposizioni di cui si propone l’abrogazione risultano, a seguito della riformulazione del quesito da parte dell’Ufficio centrale, unite da una medesima finalità: essere strumentali a consentire, sia pure all’esito di “ulteriori evidenze scientifiche” sui profili relativi alla sicurezza nucleare e tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore, di adottare una strategia energetica nazionale che non escluda espressamente l’utilizzazione di energia nucleare, ciò in contraddizione con l’intento perseguito dall’originaria richiesta referendaria, in particolare attraverso l’abrogazione dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 31 del 2010. Conseguentemente, anche il quesito riformulato mira “a realizzare un effetto di mera ablazione della nuova disciplina, in vista del chiaro ed univoco risultato normativo di non consentire l’inclusione dell’energia nucleare fra le forme di produzione energetica”. Resta invece di competenza del legislatore e del Governo fissare le modalità di adozione della strategia energetica nazionale, nel rispetto, in ogni caso, dell’esito della consultazione referendaria[4].
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[ad]In conclusione, domenica e lunedì prossimi (12 e 13 giugno) si svolgerà, tra gli altri, anche il referendum sul nucleare: si vada quindi tutti a votare consapevoli che un Sì o un No sulla scheda grigia, equivale rispettivamente ad escludere o includere, nella strategia energetica nazionale, l’utilizzazione di energia nucleare.
[1] Corte cost., sent. 12 gennaio 2011, n. 28, considerato in diritto 3.1.
[2] Ibidem, considerato in diritto 3.2.
[3] Corte cost., sent. 17 giugno 2011, n. 174, considerato in diritto 2.
[4] Ibidem, considerato in diritto 3.1.