Reset PD (Parte II)
Nella prima parte di questo articolo si è affrontato il bivio che ha di fronte il Partito Democratico, partito la cui sopravvivenza appare sempre più a rischio in base al rapporto col proprio elettorato.
[ad]Non meno importante è tuttavia il problema della collocazione politica. Nato dalla fusione di due anime ben distinte per quanto – relativamente – vicine, il Partito Democratico soffre tuttora della dicotomia politica tra posizioni prettamente di sinistra (vicine alla tradizione socialdemocratica), posizioni cristiano-sociali, per arrivare ad un’anima liberaldemocratica che ne costituisce l’ala più di destra.
La nascita ventura del prossimo esecutivo, che presumibilmente vedrà l’appoggio delle stesse forze che hanno sostenuto il Governo Monti, metterà a dura prova la tenuta di un partito così variegato nella sua composizione, ed il rischio di una scissione o quantomeno di una fuoriuscita di una parte dello stesso. Il Partito Democratico, e prima di esso l’Ulivo, è nato con la scommessa di saper sintetizzare – non solo conciliare, queste tre visioni della politica all’interno del filone cosiddetto progressista. Arrivare a comporre un’offerta politica che riuscisse a raccogliere il meglio di queste tre culture e incanalarle in un progetto di senso compiuto.
La scommessa, ad oggi, si può considerare perduta: sconfitta suggellata dalla mancata elezione di Romano Prodi, padre fondatore e uomo simbolo di questo ambizioso progetto. Ripensare all’identità del PD significa quindi affrontare una duplice sfida: da un lato capire se sia in effetti possibile riunire sotto un’unica bandiera posizioni che oggi più che mai appaiono terribilmente distanti, e dall’altro, in caso di risposta positiva al primo punto, capire quale possa essere il risultato di una simile sintesi.
Forse anche a causa dei sogni e delle speranze suscitate nel popolo di centrosinistra – o per meglio dire degli italiani che non si riconoscevano in Berlusconi – oggi praticamente non vi è chi non si lamenti della collocazione politica del Partito Democratico: troppo liberale, troppo socialdemocratico, troppo comunità (sic!), troppo laico, troppo cattolico.
Da un punto di vista prettamente teorico, questa insoddisfazione generalizzata potrebbe in effetti significare che la fusione è riuscita perfettamente, e che il PD è diventato qualcosa di altro rispetto alle proprie componenti costitutive. Se così fosse, tuttavia, lo scarso appeal risultante significherebbe solo il fallimento elettorale di questa amalgama, rendendone impossibile la realizzazione politica al di là della sua bontà effettiva.
Con ogni probabilità, tuttavia, non è questo il motivo: il gioco dei veti incrociati, formato da punti che ciascuna componente riteneva irrinunciabili unito al desiderio di predominio – o magari più semplicemente di conservazione identitaria – di ciascuna area verso le altre, ha semplicemente soffocato sul nascere ogni dibattito, impedendo a priori lo sviluppo di una linea politica indipendente, pur se fondata sulle radici delle ideologie dei partiti preesistenti.
A chi dice che il PD è morto è corretto rispondere che in realtà il PD non è mai nato: dove è vincente, spesso non è altro che la perpetuazione delle politiche e delle idee di una sua semplice componente, come avviene ad esempio in Basilicata e in Trentino, dove il governo si può considerare post-DC, e nelle regioni rosse dove il PD altro non è che una perpetuazione del sistema di potere del PCI.
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