Nella prima parte di questo articolo si è affrontato il bivio che ha di fronte il Partito Democratico, partito la cui sopravvivenza appare sempre più a rischio in base al rapporto col proprio elettorato.
[ad]Non meno importante è tuttavia il problema della collocazione politica. Nato dalla fusione di due anime ben distinte per quanto – relativamente – vicine, il Partito Democratico soffre tuttora della dicotomia politica tra posizioni prettamente di sinistra (vicine alla tradizione socialdemocratica), posizioni cristiano-sociali, per arrivare ad un’anima liberaldemocratica che ne costituisce l’ala più di destra.
La nascita ventura del prossimo esecutivo, che presumibilmente vedrà l’appoggio delle stesse forze che hanno sostenuto il Governo Monti, metterà a dura prova la tenuta di un partito così variegato nella sua composizione, ed il rischio di una scissione o quantomeno di una fuoriuscita di una parte dello stesso. Il Partito Democratico, e prima di esso l’Ulivo, è nato con la scommessa di saper sintetizzare – non solo conciliare, queste tre visioni della politica all’interno del filone cosiddetto progressista. Arrivare a comporre un’offerta politica che riuscisse a raccogliere il meglio di queste tre culture e incanalarle in un progetto di senso compiuto.
La scommessa, ad oggi, si può considerare perduta: sconfitta suggellata dalla mancata elezione di Romano Prodi, padre fondatore e uomo simbolo di questo ambizioso progetto. Ripensare all’identità del PD significa quindi affrontare una duplice sfida: da un lato capire se sia in effetti possibile riunire sotto un’unica bandiera posizioni che oggi più che mai appaiono terribilmente distanti, e dall’altro, in caso di risposta positiva al primo punto, capire quale possa essere il risultato di una simile sintesi.
Forse anche a causa dei sogni e delle speranze suscitate nel popolo di centrosinistra – o per meglio dire degli italiani che non si riconoscevano in Berlusconi – oggi praticamente non vi è chi non si lamenti della collocazione politica del Partito Democratico: troppo liberale, troppo socialdemocratico, troppo comunità (sic!), troppo laico, troppo cattolico.
Da un punto di vista prettamente teorico, questa insoddisfazione generalizzata potrebbe in effetti significare che la fusione è riuscita perfettamente, e che il PD è diventato qualcosa di altro rispetto alle proprie componenti costitutive. Se così fosse, tuttavia, lo scarso appeal risultante significherebbe solo il fallimento elettorale di questa amalgama, rendendone impossibile la realizzazione politica al di là della sua bontà effettiva.
Con ogni probabilità, tuttavia, non è questo il motivo: il gioco dei veti incrociati, formato da punti che ciascuna componente riteneva irrinunciabili unito al desiderio di predominio – o magari più semplicemente di conservazione identitaria – di ciascuna area verso le altre, ha semplicemente soffocato sul nascere ogni dibattito, impedendo a priori lo sviluppo di una linea politica indipendente, pur se fondata sulle radici delle ideologie dei partiti preesistenti.
A chi dice che il PD è morto è corretto rispondere che in realtà il PD non è mai nato: dove è vincente, spesso non è altro che la perpetuazione delle politiche e delle idee di una sua semplice componente, come avviene ad esempio in Basilicata e in Trentino, dove il governo si può considerare post-DC, e nelle regioni rosse dove il PD altro non è che una perpetuazione del sistema di potere del PCI.
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La sfida era complessa al momento della nascita del partito e sicuramente è ancora più complessa ora, in un clima di disillusione e sfiducia in cui sono molti ormai a ritenere più coerente e politicamente premiante ritornare ad una struttura a due partiti separati. È difficile dire quale possa essere la soluzione giusta – o anche solo la soluzione vincente in termini elettorali – ma ciò che è indubbio che lo status quo è semplicemente inaccettabile.
[ad]L’incapacità di formulare un progetto politico preciso e soprattutto condiviso tra tutte le varie anime del partito ha bloccato l’azione del Partito Democratico. Mascherando la propria impotenza per senso di responsabilità, il PD ha di volta in volta riversato su terzi – Monti, l’Europa, il Presidente Napolitano, le maggioranze risicate in Parlamento – una incapacità cronica di fare sintesi su un qualsivoglia tema, limitandosi ad una mera presenza parlamentare di bandiera, all’occupazione del potere piuttosto che all’esercizio del potere.
Non cessa di sorprendere a questo proposito la radicale differenza tra l’operato parlamentare e quello locale, dove invece le amministrazioni di centrosinistra brillano per efficacia.
L’inazione politica e la fuga dalle responsabilità di governo ha tuttavia avuto effetti ancora più nefasti, provocando un appiattimento del PD verso posizioni progressivamente sempre più estranee a tutte le anime del partito, fino ad appiattirlo letteralmente sulla destra berlusconiana.
Un appiattiamento che non significa (solo) seguire Berlusconi su strade sempre più di destra che hanno portato a considerare progressivamente accettabile ciò che fino a pochi anni prima magari sarebbe stato anche solo improponibile, ma anche laddove il PD mantiene posizioni distinte da quelle di Berlusconi, ha sempre lasciato al Cavaliere il compito di dettare l’agenda politica, limitandosi ad un gioco puramente di rimessa alla lunga perdente. Il PD è un partito mai nato perché non ha mai fatto politica, e le cause di questo sono da ricercarsi nell’incapacità di portare a termine quel progetto di sintesi delle culture di provenienza.
Solo sciogliendo questo nodo e sviluppando un proprio programma autonomo – quale che sia: socialdemocratico, liberista, comunista, laico, cattolico – il PD inizierà ad essere veramente un soggetto politico; in caso contrario resterà, secondo una felice espressione di Bersani nel suo discorso di dimissioni, solo uno spazio politico.
La questione è solo generazionale?
La protervia con cui una certa dirigenza si è mantenuta al potere al di là delle proprie capacità politiche e della semplice logica anagrafica ha impedito di dare una risposta chiara a questa domanda. I nativi del PD, coloro che si sono affacciati alla politica con l’esperienza dei democratici o che comunque non hanno mai fatto espressamente riferimento alle ideologie precedenti, sarebbero stati in grado di trovare quella sintesi sfuggita all’attuale dirigenza del partito?
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Questa era la sfida di Marino nel 2009, ma la sua sconfitta alla segreteria del PD rimise in sordina la questione. Questa, con ogni probabilità, è la sfida di Civati nel 2013, e si vedrà se questa volta gli esiti saranno differenti.
Tuttavia, osservando le differenti posizioni in campo percorrendo tutto l’arco politico da Renzi a Orfini, appare oggi quantomai difficile che una simile eventualità si realizzi pienamente.
Cresciuti all’ombra dei rispettivi leader, sembrano più riproporre e portare avanti ciascuno le proprie politiche che impegnarsi nel tentativo di trovarne una nuova che le raccolga; uniti dallo scontro generazionale contro l’attuale classe dirigente, paiono in realtà più divisi che mai sul futuro del PD e sulla sua direzione politica.
E se le cose stessero veramente in questo modo, allora, forse, una separazione consensuale non potrebbe che giovare a tutti, Italia compresa.