Pontida, molto rumore per nulla
La vigilia di Pontida, con tutto il suo viavai di dichiarazioni e di scoop ad effetto, di quest’anno è stata probabilmente l’attesa più spasmodica degli ultimi tempi per quanto riguarda il consueto raduno leghista tra le valli orobiche.
[ad]Un’attesa dovuta alla debacle delle amministrative e al successo del referendum che hanno registrato un innegabile calo di consensi nei confronti del Carroccio e una minor capacità di presa sul territorio.
Ovvio che, a seguito di questi due eventi, si parlasse di rischi per la tenuta del governo e presumibili “staccamenti della spina” da parte del riottoso alleato leghista.
Il problema però è che l’attesa trepidante e le dichiarazioni ad effetto (anche se le considerazioni di Maroni sulla rilevanza della Lega hanno un qualcosa di lapalissiano) molto spesso se raffrontata ad una realtà abbastanza ordinaria, se non blanda, rischia di peggiorare le cose. Le grandi aspettative e le grandi speranze naufragano davanti alla realtà e al destino cinico e baro.
Questo però non è stato solo percepito dall’opinione pubblica, se escludiamo alcune persone che da questa Pontida effettivamente non si aspettavano novità di rilievo, ma anche dalla base leghista come ben si è visto dalla reazione delle persone che sul pratone ci stavano davvero.
E così il Bossi definito non a torto “temporeggiatore” che propone dicasteri al nord, tagli delle tasse e un cronoprogamma (che però dovrebbe essere usanza di tante buone amministrazioni locali…) si accosta al Bossi che ricorda come non si possa far cascare il governo proprio adesso. Il Bossi che invita ad un certo realismo considerato poco attraente dalla base. Il Bossi che, nel perorare la causa della permanenza in questo esecutivo, paventa il rischio di una vittoria del centrosinistra richiamandosi ai “cicli storici” e rimembrando quando discuteva dell’infallibilità della Lega perché “munita sì di un’ideologia, ma non di impronta idealistica, bensì di carattere scientifico. Come il comunismo in passato”.
La conseguenza di tutto ciò ben si è vista tra i militanti. Lungi dal fare di tutta l’erba un fascio tra i militanti intervistati dai media la gran parte chiedeva la fine dell’alleanza con Berlusconi proponendo, sulla falsariga del 1996, una corsa in solitaria per recuperare consensi e linfa dopo qualche ammacco d’immagine.
Lo stesso attaccamento nei confronti della figura di Maroni in realtà è il sintomo di un scollamento, a livello della base, nei confronti di un’alleanza considerata sempre di più come una zavorra che attanaglia la crescita e l’egemonia della Lega.
E’ in tutto ciò che tra l’altro emergono, anche a livello dirigenziale, le prime crepe e le prime avvisaglie di spaccatura. Crepe ed avvisaglie però che difficilmente riescono a indicarci le future prospettive della politica italiana.
Il tema della successione a Bossi infatti in realtà non è stato mai aperto definitivamente: a seguito della sua malattia nel marzo 2004 qualche coraggioso giornalista ipotizzò, per scongiurare una faida correntizia interna al Carroccio, la nomina del segretario della Lega Lombarda Giancarlo Giorgetti come futuro leader della Lega Nord. Una mossa tesa a tamponare le potenziali lotte intestine tra i tre principali esponenti della Lega dopo Bossi: Maroni, Calderoli e Castelli.
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