C’è un marchio di fabbrica nella composizione del Governo Letta. Non solo la scelta di un totale ringiovanimento della compagine ministeriale (più di dieci anni in media di meno rispetto al precedente governo) o ad un record di 7 donne ministro. Ma anche un certosino lavoro di trattativa politica che ha prodotto risultati, per quanto gran parte dell’elettorato fosse ostile nei confronti di un esecutivo d’unità nazionale, che hanno reso il primo governo Letta come “digeribile” sia agli occhi della base Pd sia a quelli dell’elettorato berlusconiano.
[ad]Del resto lo stesso Giorgio Napolitano, il 27 aprile, a seguito dello “scioglimento della riserva” da parte di Letta ha elogiato l’operato dell’ex vicesegretario Pd segnalando come il governo in questione sia da considerarsi “prettamente politico” e come l’artefice dell’operazione sia lo stesso Letta.
Vediamo allora le linee guida che hanno spinto l’azione di Enrico Letta e cerchiamo di trarne qualche conclusione di carattere culturale e politico. La base del ragionamento di Letta, che veniva avanzata ai partiti che incontrava in delegazione, si basava su due postulati: ricambio generazionale e ricambio di persone.
Con “ricambio generazionale” si intendeva il favorire l’emergere di una nuova leva di personale governativo. Con “ricambio di persone” si volevano mettere dei paletti invece a tutti i coloro i quali premevano per l’ingresso in esecutivo di personalità già legati a precedenti governo di centrodestra o di centrosinistra.
In questo modo Enrico Letta è riuscito subito a levare via dal campo alcune nomi controversi o considerati eccessivamente “divisivi”. Il primo a comprendere questo approccio è stato lo stesso Mario Monti che, cogliendo al volo le dinamiche, ha pubblicamente dichiarato in televisione, la sera del 26 marzo, il suo passo indietro rispetto al ministero degli affari esteri. Queste scelte hanno portato ad un effetto domino che ha radiato dalla rosa dei papabili nomi come quello di Silvio Berlusconi (e le sue mire sul ministero dell’economia) o come quelli di D’Alema, Amato e Brunetta.
Eliminato lo scoglio legato ai “nomi” si è posto a questo punto un problema legato ai “temi”. Alcuni dicasteri infatti vengono considerati ministeri chiave oppure strategici per alcune dinamiche tipiche della Seconda Repubblica. Nella prima categoria rientrano quello dell’economia e degli esteri, nella seconda il ministero della giustizia.
Letta allora ha deciso di togliere dal tavolo della trattativa tutti gli screzi legati a questi tre ministeri. Arrivando a due nomine tecniche (Saccomanni e Cancellieri) e una politica ma di carattere trasversale (Bonino).
Il fatto che sia stata utilizzata questa strategia politica è ben rappresentato dalla scelta di nominare Enrico Giovannini al ministero del lavoro e delle politiche sociale. Infatti i rumors davano quasi per certa la nomina del responsabile economico del Pd Stefano Fassina per quell’incarico. Si è però subito capito, per quanto quella casella spettasse al fronte “progressista”, che la nomina di Fassina avrebbe marcato eccessivamente la natura di un governo che, per forza di cose, tende ad essere ibrida. La scelta di un tecnico come Giovannini (unico membro dei “Saggi di Napolitano” sui temi politico-sociali a far parte di questo esecutivo) ha consentito di bypassare la controversia politica in nome della competenza tecnica.
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Per il resto il governo, giornalisticamente parlando, può dirsi un giusto mix tra nomi a sorpresa e caselle che non ti aspetti: nomi come quelli della Idem, di Zanonato, di Bray, di Claudio Trigilia e di Cécile Kyenge sono nominativi del tutto a sorpresa mai usciti in nessuna indiscrezione giornalistica. Al tempo stesso ha stupito la scelta di collocare alcuni nomi presso alcuni dicasteri: il già citato Giovannini o la sorpresa legata a Dario Franceschini, collocato al dipartimento per i rapporti col parlamento e l’attuazione del programma.
[ad]Che conclusione possiamo trarne? Si è elogiato il lavoro di Enrico Letta e la sua abilità nella trattativa. In tal senso si è evidenziata la maggiore predisposizione nell’arte del compromesso di Letta rispetto a quella di Bersani. Il tutto in nome della passata esperienza nella Democrazia Cristiana del neopremier.
In realtà nel profilo di Enrico Letta, e anche nelle sua azione politica, non si evidenzia mai con nettezza l’appartenenza del presidente del consiglio al ceppo cristiano-democratico.
Per certi versi Enrico Letta è da considerarsi un ex democristiano anomalo, su questo simile a Matteo Renzi. Di fronte ad una tradizione culturale del popolarismo italiano che, sulla falsariga del compromesso storico, non ha esitato a fondersi con l’altra cultura politica maggioritaria del nostro paese (esempio di questa categoria: Rosy Bindi) e di fronte ad una cultura del cristianesimo democratico gelosa della sua autonomia quasi da essere ostile, in una primissima fase, al progetto del Pd e capace di preservare una certa dose di autonomia anche nel nuovo partito (esempi: Franco Marini e Giuseppe Fioroni), la cultura politica di Letta risente di contaminazioni dalla tradizione liberaldemocratica. In un certo senso ricorda (senza scomodare la definizione di “liberista cristiano”) Giuseppe Pella e il suo desiderio di rendere la dottrina sociale della Chiesa un club non esclusivo.
Non a caso Letta è stato, alle primarie fondative del Pd nel 2007, il preferito di Romano Prodi e, c’è da scommetterlo, anche di Giorgio Napolitano se si considera il sostegno del suo ex pupillo Umberto Ranieri dato all’allora sottosegretario di stato alla presidenza del consiglio.
In questo senso, pur appartenendo all’ampia categoria dei seguaci di Nino Andretta, Letta sembra sempre più in grado di andare oltre agli steccati politici del passato. Con discrezione ed una certa dose di gelosia. Cercando, ça va sans dire, di non scadere in un bieco minoritarismo tipico di gran parte della cultura liberale italiana.