I partiti
Il punto di partenza per comprendere i partiti, la loro storia e la loro funzione non può che essere la loro definizione.
Su cosa sia un partito non vi è un consenso unanime, tuttavia la definizione più comune è quella di “collettore del consenso sociale verso le istituzioni“. Questa definizione, per quanto pecchi di generalità ci aiuta a cogliere alcuni aspetti fondamentali di cosa sia e a cosa serva un partito.
Storia e funzione dei partiti
Ma a cosa serve un partito? La nostra forma di democrazia non è l’unica: se distingue generalmente tra democrazie dirette e democrazie indirette (o rappresentative), le prime sono quelle in cui (semplificando) tutta la popolazione vota su ogni questione, le seconde quelle in cui il popolo delega per motivi vari il proprio potere decisionale a dei rappresentati.
La nostra è una democrazia indiretta.
Nello stato liberale vi sono tre tipi di potere: quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. Questa divisione nasce perché se da una parte il re gestiva le spese e il funzionamento dello stato, dall’altra vi era bisogno di un contrappeso che ponesse un freno alla sua capacità impositiva (ovvero alla sua capacità di creare nuove tasse). Così i parlamenti nascevano come assemblea dei rappresentanti della popolazione, assemblea a cui il sovrano doveva chiedere il permesso per creare nuove tasse e imporre nuovi doveri. Chiaramente in questo assetto i giudici non solo dovevano regolare i rapporti tra i cittadini ma anche tra governo e parlamento, i quali erano contrapposti dal semplice fatto di rappresentare interessi diversi.
Nella maggior parte delle democrazie di oggi il governo non è più espressione della corona, bensì del popolo in caso di sistema presidenziale o dei rappresentanti del popolo in caso di democrazia parlamentare. Se però la fonte di legittimazione di governo e parlamento sono le stesse è chiaro che viene a mancare la contrapposizione di interessi che fungeva da incentivo al controllo reciproco: chi controlla oggi il governo? Per porre dei limiti al potere dei governi nel corso del XX secolo si sono diffuse le c.d. “costituzioni rigide“, le quali necessitano di maggioranze più ampie del normale (in italia 2/3 dei parlamentari) per essere modificate. In tal modo le regole del gioco possono essere modificate solamente con il consenso dell’opposizione, la quale è dunque tutelata.
Non è un caso che le costituzioni rigide si siano sviluppate nel corso del XX secolo, ovvero il secolo in cui nei parlamenti iniziarono a essere rappresentati interessi diversi e conflittuali.
Se prima infatti i parlamenti per via del suffragio ristretto erano essenzialmente espressione della borghesia che si tutelava dai soprusi dei sovrani (ergendosi quindi a difesa dei propri diritti civili e politici nonché delle proprie libertà economiche), con le guerre mondiali le masse venendo coinvolte in sforzi collettivi senza precedenti pretesero in cambio una maggiore rappresentanza oltre che i c.d. “diritti sociali”.
Si può fare un parallelismo con la rivoluzione americana: come i futuri statunitensi al momento dell’imposizione di maggiori oneri fiscali pretesero una maggiore rappresentanza nel parlamento (“no taxation without representation”) le masse al termine degli sforzi bellici e degli enormi sacrifici che essi comportarono pretesero di avere voce in capitolo.
Se a ciò si aggiunge lo spostamento della popolazione dalle campagne verso le città e la sempre maggiore industrializzazione che portò gli strati più bassi della popolazione a vivere a stretto contatto gli uni con gli altri non ci si deve sorprendere se le masse hanno acquisito una maggiore coscienza civica, organizzandosi dunque per portare avanti le loro battaglie con maggiore efficacia.
In questo scenario in cui il popolo è sovrano per mezzo del parlamento, i partiti sono (o almeno erano) dunque quegli enti che rappresentano le diverse fasce sociali della popolazione e i diversi interessi. Questo aspetto è agevolmente comprensibile guardando alla nostra prima repubblica, in cui con tutte le sfumature e le eccezioni del caso si può dire che ad esempio il PCI rappresentava le classi operaie e contadine mentre la DC la piccola borghesia (pur avendo anch’essa un ampio supporto tra gli strati più bassi della popolazione).
Ad oggi i partiti, sebbene siano ancora espressione di interessi diversi, nel c.d. “primo mondo” sono più raramente rappresentativi di una classe sociale di quanto non lo fossero in passato. Nonostante la loro crisi però essi sono ancora il principale intermediario tra il popolo e le istituzioni.
I partiti in Italia e le “primarie”
Nell’Italia repubblicana i partiti giocano quindi un ruolo fondamentale: ogni cittadino ha “il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Non è chiaro se ciò voglia dire solo che i partiti debbano “concorrere in modo democratico alla determinazione della politica nazionale” o se anche i cittadini debbano concorrere in maniera democratica ad essa, ovvero se i partiti debbano avere obbligatoriamente uno statuto improntato alla democraticità interna o meno.
Tuttavia molti partiti al momento di scegliere la propria classe dirigente svolgono delle primarie, le quali possono assumere forme diverse in base allo statuto di ciascun partito. Ad esempio nel Partito Democratico i votanti alle primarie (che non sono solo gli iscritti ma chiunque voglia votare contribuendo con una somma generalmente pari a 2€) votano per l’assemblea, la quale poi nomina il segretario (che può essere il leader della lista che ha preso più voti ma anche altri in caso nessuna lista raggiunga da sola il 50%+1 dei seggi in assemblea).
Le primarie sono uno degli strumenti di democrazia interna di cui abbiamo parlato poco sopra, l’altro grande strumento di partecipazione democratica alla vita del partito sono i referendum tra gli iscritti, pensiamo per esempio al voto del M5S sulle alleanze giallo-verde e giallo-rossa.