Non tutto è buono ciò che si autoproclama “buono”

Pubblicato il 12 Maggio 2013 alle 15:45 Autore: Redazione

La truffa più odiosa è forse quella che si camuffa con simboli e valori universalmente “indiscutibili” quali carità, solidarietà, fratellanza, pacifismo o ecologismo. Ormai quotidianamente il sistema massmediatico porta a galla esempi, di varia entità, di questo tipo di sciacallaggio; in particolare, nell’ultimo decennio sono stati pubblicati validi saggi sulla vacuità e le ambiguità degli aiuti al cosiddetto Sud del mondo gestiti dalle o.n.g. internazionali.

[ad]Un altro grande pericolo (ed inganno) che si sta profilando in questi ultimi anni è quello che è stato definito “greenwashing” o, più in generale, “social washing”, cioè lo sfruttamento per soli scopi commerciali dei principi di sostenibilità ambientale e di responsabilità sociale che, fortunatamente, sono riusciti a diventare dei paletti di riferimento fondamentali per ogni politica (sovra)nazionale.

E’, dunque, importante pubblicizzare due nuovi saggi, approdati in libreria da pochi mesi, che analizzano approfonditamente e brillantemente i “buchi neri” della cooperazione e della nuova green economy e che, dal nostro punto di vista, dovrebbero essere letti da chiunque.

Valentina Furlanetto

Valentina Furlanetto

Abbiamo già accennato alla mole di contributi, anche editoriali, che hanno cercato di far luce sugli aspetti contradditori, se non puramente speculativi, del mondo della cooperazione internazionale e del non profit o dell’associazionismo in generale. Tuttavia, è la brava giornalista di Radio 24 Valentina Furlanetto, col suo “L’Industria della Carità” edito da Chiarelettere (www.chiarelettere.it), a proporre al mercato librario la prima opera sistematica sugli inganni, gli sprechi, l’incompetenza, la corruzione, l’affarismo senza scrupoli, i privilegi castali, la collusione col profit e gli interessi privati di quella che, appunto, si può etichettare come “industria della carità”, inglobante non solo i migliaia di progetti di sostegno al terzo e quarto mondo, ma anche le varie campagne di sensibilizzazione, la vendita di prodotti per finanziare la ricerca scientifica, i grandi eventi e l’utilizzo di testimonial per beneficenza o il partenariato con programmi governativi a sostegno del commercio estero, ecc. Sino ad indagare anche nei circuiti del commercio equo-solidale – che ormai ha conquistato anche i canali di distribuzione tradizionali – che, in non poche situazioni, pare abbia smarrito la vocazione originaria e si sia ridotto a niente di più che un business come tutti gli altri.

Il tutto abbondantemente documentato da storie, materiale e testimonianze inedite.

In queste imperdibili 250 pagine, viene confermata, innanzitutto, la pesantezza delle macchine istituzionali e private predisposte, almeno nelle intenzioni originarie, alla creazione di beni e risorse per individui e collettività in difficoltà; tanto da apparire molto simili ai nostri partiti politici, a fronte dell’elevata movimentazione di denaro (pubblico) investito più per il proprio mantenimento che per far del bene al prossimo. Gli esempi che la stessa Furlanetto presenta sono numerosi, troppi, sottolineanti, in prevalenza, come grosse agenzie tipo Greenpeace, l’Associazione Italiana per il Cancro, Amnesty, Unicef, o altre famose o.n.g. spendano per la promozione di se stesse cifre solo di poco inferiori e, in altri casi, addirittura superiori, a quelle per le attività a diretto beneficio di terzi bisognosi. Ma non c’è solo la promozione, ci sono anche i costi (esageratamente rilevanti) di organizzazione, gestione ed amministrazione: ad esempio Airc, nel 2011, per organizzarne la vendita nelle piazze italiane, ha speso la metà dei ricavi delle azalee vendute in sostegno della ricerca contro il cancro. Scandalosi sono, poi, i numeri dei rapporti delle varie campagne di solidarietà per Haiti (spesso finanziate con gli “sms del cuore”) testificanti la bassa percentuale di ricavi che finiscono direttamente ai disagiati; gli emolumenti e le buone uscite milionarie garantite ai massimi dirigenti delle organizzazioni internazionali; gli sprechi immani facilmente evitabili con un minimo di coordinamento e accuratezza.

Ma, soprattutto, ne esce fuori un quadro in cui, anche ai livelli più bassi, le sempre più numerose organizzazioni private del settore si ritrovano in un’accesa e serrata – a tratti violenta – competizione senza esclusione di colpi per la spartizione della torta rappresentata dalla somma di finanziamenti pubblici e privati. In cui, troppo spesso, gli obiettivi finali e generici di “sviluppo” e “cooperazione” sono strumentalizzati per garantire l’alimentazione e la sopravvivenza futura di un “sistema” che coinvolge milioni di addetti in Italia e nel mondo. In cui, le o.n.g. o altre associazioni finiscono per diventare, anche involontariamente, dei ponti di collegamento utili all’espansionismo commerciale dell’Occidente.

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L'autore: Redazione

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