Che alla crisi dei debiti sovrani, per quanto riguarda l’Italia, si sia aggiunta una crisi di credibilità da parte del governo e della sua classe politica, in grado di influire sul crollo della borsa e sullo spread dei titoli pubblici, è oramai cosa conclamata. Ma che ciò potesse mandare in subbuglio e nel panico più totale anche altre mosse politiche di Silvio Berlusconi non era una cosa scontata.
[ad]Berlusconi, come noto, è un politico anomalo. Non tanto per la sua formazione manageriale, non tanto per una concezione della cosa pubblica più vicina alla realtà dei cda che a quella dei consigli dei ministri. Ma soprattutto perché dispone di un numero di “mosse limitate”, come se non potesse muovere tutti i pezzi della sua scacchiera. Un piccolo handicap ben compensato da uno strapotere mediatico al di sopra di qualsiasi norma, formale o informale.
E dunque uno dei prerequisiti del berlusconismo è l’impossibilità di dimettersi. Berlusconi non si dimette mai, come del resto non può detenere incarico che sia diverso da quello della presidenza del Consiglio. Se escludiamo il caso del 1994, dove materialmente perse la maggioranza in Parlamento, le uniche dimissioni dall’incarico di Berlusconi sono legate o alla fine della legislatura o alla presentazione di un nuovo esecutivo sempre guidato da lui. Berlusconi non si dimise dopo il disastro delle regionali del 2005, quando perse 12 regioni su 14, e non si dimetterà nemmeno questa volta dopo gli umilianti smacchi subiti nel corso delle elezioni amministrative.
Non può farlo perché l’addio, le dimissioni e il ritiro sono legati all’uscita di scena, che però a sua volta ha un nesso con l’entrata in scena. La fine ha comunque qualcosa a che fare con l’incipit. E sappiamo che se, quel benedetto 24 gennaio del 1994, Berlusconi è sceso in campo non è stato per alta idealità. Il problema è che pur non potendo fare un passo indietro in questo giorni il Cavaliere si trova politicamente immobilizzato. Vittima di un logoramento che giustamente teme più che mai. E tutto ciò emerge ancora più chiaramente dopo la delicata e celere approvazione della Finanziaria in Parlamento.
Se infatti le trattative per incassare la manovra sono state ottenute attraverso l’asse Bruxelles-Bankitalia-Quirinale e Via XX Settembre, il governo si è inserito nella partita ma solo tramite la sagacia diplomatica del sottosegretario Gianni Letta. Dopo l’approvazione della manovra, e quindi dopo la fine della fase di responsabilità garantita dalle opposizioni, Berlusconi si trova ancora dei muri molto alti da valicare. Forse conseguenza del suo forzato silenzio alla vigilia della manovra dove si temeva che le sue sparate contro la sentenza Cir e contro la procura di Milano potessero aggravare ulteriormente la già drammatica situazione degli indici di borsa.
Di questa situazione si è reso conto lo stesso Cavaliere il giorno lunedì 18 luglio quando è salito per circa un’ora al Quirinale per un incontro con Napolitano sul post-manovra. Si doveva parlare del dopo manovra appunto, ma il calo di Piazza Affari della stessa giornata di lunedì ha imposto una disamina ulteriore anche su questo tema accompagnato da inviti alla crescita economica molto spesso vittima del rigorismo sfrenato teso all’azzeramento del rapporto deficit/Pil.
[ad]In questa situazione Berlusconi dunque ha parlato del cambio al ministero della Giustizia dopo l’elezione di Alfano a segretario politico del PdL. Ventilando un rimpasto (conseguente alla nomina a via Arenula di personalità come Frattini, Brunetta o la Gelmini) Berlusconi si è sentito rispondere da Napolitano che non è proprio il momento del rimpasti considerando la delicata contingenza politico-economica. Sentita la risposta allora Berlusconi ha ricordato come ci siano papabili alla giustizia anche tra dei semplici parlamentari come Donato Bruno, Enrico La Loggia o addirittura Nitto Palma. E’ stato ancora una volta interrotto da Napolitano che gli ha ricordato come non solo non sono possibili rimpasti in questa fase, ma non sono nemmeno auspicabili nomine. Da qui anche uno stop alla designazione del futuro governatore di Bankitalia.
Questo colloquio è la rappresentazione plastica di come Berlusconi abbia le mani legate. Non solo subisce una manovra che non sente sua, non solo rischia sui casi legati a Romano, Papa e Milanese, ma addirittura non riesce a compiere “manovre politiche” interne al suo esecutivo. Per una persona che si è sempre lamentata dei lacci e lacciuoli della politica nostrana e delle istituzioni della Repubblica, forse questo è il più grande smacco.
Il governo, a causa dei danni che potrebbero causare in questa fase alcuni suoi esponenti, è costretto a subire una forma di commissariamento forzoso. Senza saperlo il Cavaliere si è messo in mezzo a quello stesso ingranaggio che in realtà rallenta la macchina. Mentre per anni si considerava l’unico acceleratore in grado di combattere e arginare i freni imposti dalle lungaggini burocratiche della democrazia parlamentare.