Più dell’incapacità, delle bugie conclamante, dell’illegalità diffusa. Più del mantenimento dei privilegi mentre si chiedono sacrifici ai cittadini. Più della scarsa idea di stabilità trasmessa ai mercati. La vera ragione per cui urge un cambiamento al vertice della classe dirigente è l’idea di società che da troppi anni questo governo e questa maggioranza stanno propagandando nel Paese.
Un’idea fatta della paura dell’altro – senza prendersi la briga di verificare che quella paura sia razionale e che, anche se giustificata, il modo migliore per rispondervi sia erigere muri. Fatta di discriminazione strisciante per il diverso, sia esso una donna, un omosessuale o un ateo – senza mai mettere in discussione la radice della propria presunta superiorità. Fatta del tentativo disperato di spacciare il passato per futuro, la stasi per cambiamento, l’arroccamento nel proprio fortino ideologico per una battaglia di conquista.
È qui che germogliano i semi della barbarie: non nella tradizione, ma in una tradizione che si ritiene immutabile perché da sempre giustificata da una tetra versione mondana della fede. Che pretende di sostituirsi alla ragione nella gestione della cosa pubblica. Che rende morale il sopruso. Che si maschera di tolleranza e accoglimento.
Perché non è con una legge che si combatte l’omofobia, lo sappiamo, ma siamo al punto in cui la propria identità sessuale è talmente stereotipata, uniformata (almeno dall’alto) che una petizione di principio per ribadire la normalità del diverso è necessaria – e invece non giunge.
Perché non vi è ragione scientifica per sostenere che una persona, nel pieno esercizio delle proprie facoltà, non possa rinunciare a idratazione e alimentazione artificiale nel caso un medico dovesse trovarsi a decidere se mantenerlo o meno in vita – eppure lo Stato (quello della «rivoluzione liberale») lo impedisce. Dimenticando che, proprio secondo la tradizione di pensiero a cui il governo dice di ispirarsi, anche su questo non dovrebbe esserci bisogno di alcuna legge.
Perché non è affatto autoevidente che una società basata sulla difesa rabbiosa della propria identità culturale debba necessariamente fiorire più e meglio di una in cui identità e culture si mescolano, dando vita a qualcosa di nuovo – eppure l’esecutivo pone il concetto come un assioma, invece che come una faticosa ipotesi di lavoro.
È questa la nuova ‘questione morale’ a cui siamo di fronte: scegliere se stare con il passato, proseguendo nell’atto di fede, oppure provare a dire basta, e dirlo con la forza dei fallimenti a cui quella fede ha portato. Se rimanere comodamente seduti nel pregiudizio oppure faticosamente, con umiltà, fare ingresso nell’era del giudizio. Con spirito critico, mettendo sempre in dubbio la fonte delle proprie sicurezze. Chissà che, in qualche tempo, non ci si scopra tutti più carichi di ragionevole speranza. Perché in fondo è di questo che abbiamo davvero bisogno. Più del parere favorevole di una agenzia di rating.