Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente. “Quando ti vien voglia di criticare qualcuno” mi disse “ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu”
[ad]Così Nick Carraway ripercorre nella memoria il suo passato, ciò che era prima di conoscere Jay Gatsby, diventarne confidente ed alleato nell’estate del 1922 a Long Island. Una stagione questa, che si rivelerà luccicante e polverosa al tempo stesso. Un tratto di vita breve solo se misurato attraverso un calendario, ma che investe Nick, Jay, Daisy, Jordan e Tom con tutta la sua volubile intensità. Intanto, minacciosi ed inquietanti, si ergono su tutti, da un cartellone pubblicitario, gli occhi del dottor T. J. Eckleburg, oculista dimenticato.
Il grande Gatsby del regista australiano Baz Luhrmann uscito il 16 maggio scorso ed ispirato all’omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald pubblicato per la prima volta a New York nel 1925, si muove intrecciando questi due registri. Lusso e abbondanza dispensati a piene mani da Gatsby (interpretato da Leonardo Di Caprio) a chiunque incroci il suo cammino, ma incapaci di sfamare e placare il suo bisogno di amore ed accettazione. Il centro focale dell’incredibile quantità di energia e tenacia profuse da Gatsby nella costruzione del suo mirabile universo personale è una sola persona, Daisy (interpretata da Carey Mulligan), cugina di Nick (Tobey Maguire) ora sposata con il giocatore di polo Tom Buchanan (Joel Edgerton). Un tempo Daisy e Gatsby erano innamorati ed uniti da un’appassionata relazione, rivela Jordan (Elizabeth Debicki) a Carraway.
“Sono cinque anni che non ci vediamo” dice Daisy a Gatsby fingendo calma e noncuranza. Il cugino l’ha invitata con il pretesto di un the, su richiesta di Gatsby, suo vicino di casa, la cui lussureggiante villa, non a caso, è esattamente di fronte a quella di Tom e Daisy. “Saranno cinque a novembre”, precisa Gatsby, pronto a tutto pur di riconquistarla. Incrollabile è la fiducia che l’uomo nutre nelle sue risorse, e nella capacità del passato di sopravvivere incorrotto alle intemperie del tempo, e del cuore. Questo nuovo inizio, di cui Nick è complice e testimone, è scandito da un abbraccio di fiori, che ritornano, emblematicamente, a sigillare la storia nel finale, ma con ben altro accento e significato. Così, quella stessa luce verde capace d’incarnare e nutrire un desiderio, torna ad essere niente, nel momento in cui la si spunta come qualsiasi altra cosa, dalla lista dei desideri.
Ero dentro, ed ero fuori, nota Nick percorrendo retrospettivamente la vicenda. Attore in scena, e spettatore al tempo stesso. L’unico realmente vicino a Gatsby, il solo che resta, quando la festa finisce, ed i camerieri devono spazzar via i coriandoli, togliere i festoni, e ripescare i bicchieri vuoti dalla piscina. Non si può ripetere il passato, prova a spiegare Carraway. Non si può ripetere il passato? Ma certo che si può, ribatte Gatsby, convinto che la sua volontà riesca a vincere su tutto, e tutto piegare, dopo che gli ha donato una vita sfavillante a dispetto di un’infanzia squallida e di stenti.
Volare è inebriante, ma avvicinarsi al sole è pericolosissimo. Mortale, probabilmente. Desiderare troppo fa precipitare rovinosamente: Gatsby ricorda il mito di Dedalo ed Icaro. Jay è solo, circondato dagli oggetti raffinatissimi ed abbaglianti che ha maniacalmente accumulato con il solo scopo di poterli un giorno mostrare e condividere con Daisy. C’è qualcosa di Charles Foster Kane, protagonista di Quarto Potere di Orson Welles, in questo aspetto del romanzo di Fitzgerald evidenziato da Baz Luhrmann.
Ne Il grande Gatsby la vicenda di un uomo finisce per assumere una valenza più ampia, diventa il simbolo di un’intera epoca, i Roaring Twenties, i ruggenti Anni Venti attraversati da maschiette e filosofi, a cui peraltro Fitzgerald intitolò una raccolta di racconti pubblicata nel 1920. Sono, questi, gli anni del jazz e delle flappers, donne sfrontate e spregiudicate, con capelli corti e sigaretta in bocca, contrapposte ai tradizionali modelli femminili. Il grande Gatsby rappresenta e “fotografa” il sogno americano che giunge al suo apice, freneticamente, grazie al boom della Borsa e dei traffici illeciti, l’istante prima di implodere a causa della Grande Crisi del 1929.
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“E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte.
[ad]Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia … e una bella mattina…
Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato“.
Si chiude così il Grande Gatsby, con una sorta di testamento spirituale dello stesso Fitzgerald. Luhrmann reinterpreta il romanzo, di cui ci sono tre altre versioni cinematografiche, attraverso la sua personale cifra stilistica, che abbiamo imparato a conoscere con Romeo + Giulietta, Moulin Rouge, ed Australia. Una colonna sonora che comprende nomi come Jay Z, Beyoncè e Lana Del Rey: il regista australiano punta sui fuochi d’artificio per colpire, al pari del protagonista, ma a Cannes il film è stato accolto con freddezza. Al di là d tutto, resta però la grandezza, la capacità di emozionare, di un autore come Fitzgerald il cui messaggio ed intensità ci arrivano intatti, a distanza di quasi un secolo.