Ddl anti-movimenti? Solo per chi non lo legge (tutto)
La musica cambia – e molto – se si leggono anche gli articoli 1 e 2 dello stesso ddl: c’è scritto che «La presente legge reca disposizioni per la disciplina dei partiti politici, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione» e che «I partiti politici sono associazioni riconosciute dotate di personalità giuridica». Significa, come chiarito pure dal titolo dell’atto, che il progetto di legge in esame riguarda solamente i partiti politici. Non altre forme di aggregazione. E, a ben guardare, l’articolo 49 della Costituzione non parla minimamente di elezioni; allo stesso modo, l’articolo 48 che regola il voto non parla affatto di partiti. Su queste basi, dovrebbe accendersi la lampadina: ma sta scritto da qualche parte che alle elezioni possono partecipare soggetti organizzati diversi dai partiti?
[ad]La risposta – per fortuna – è sì. Basta prendere il decreto legislativo 361/1957, con cui viene approvato il Testo unico per l’elezione della Camera dei Deputati, su cui le varie riforme (Mattarellum e Porcellum inclusi) sono intervenute via via (per il Senato valgono norme analoghe). Lì si parla certamente di partiti, ma – e qui è il punto – a presentare liste possono essere anche «gruppi politici organizzati» e non c’è traccia, nel ddl Finocchiaro, di disposizioni che cancellino quelle parole dal testo; nelle norme che regolano le elezioni dei comuni, per dire, di partiti nemmeno si parla. Se la Costituzione non dice – né direbbe mai – che solo i partiti (che esistevano, come forma aggregativa, prima della Carta) possono partecipare alle elezioni, significa che altri gruppi hanno il diritto di prendervi parte: è il significato autentico della democrazia, che non può conoscere restrizioni (salvo casi eccezionali, come il divieto di ricostituire il partito fascista).
Ciò, peraltro, non significa che lo Stato non possa pretendere, proprio in ossequio a quello che la Costituzione prevede, che chi desidera darsi la forma stabile del partito debba sottoporsi a regole più stringenti per la partecipazione alle elezioni e, ad esempio, per godere di risorse pubbliche a titolo di rimborso. Del resto, se si prendono alcune disposizioni del citato decreto legislativo 361/1957 – ad esempio, l’articolo 14, sul deposito dei contrassegni elettorali, cioè dei simboli – si può scoprire che già lì alcune regole valgono per partiti e gruppi politici organizzati, mentre altre si rivolgono esclusivamente ai partiti: questo basta a dire che le regole dettate per i partiti non potrebbero comunque essere automaticamente estese ai gruppi organizzati (un po’ per ragioni di chiarezza di linguaggio, un po’ per salvaguardare la partecipazione alle elezioni).
Morale: se si legge bene, lo scandalo non c’è. Resta la pietra, cioè il disegno di legge. Che può ovviamente non piacere, essere ritenuto inopportuno per altri motivi: ad esempio perché manca una regolazione delle fondazioni politiche, in costante bilico tra la natura di think tank e di casseforti dei partiti o delle correnti. Certo, potrebbe rendersi necessario in un secondo momento dare un minimo di regole anche ai gruppi politici (per evitare che un partito scelga di “camuffarsi” da gruppo soltanto per non dover sottostare alle formalità previste dalla legge), ma allo stato attuale i movimenti non hanno di che temere.