Ddl anti-movimenti? Solo per chi non lo legge (tutto)
La pietra dello “scandalo” è l’atto Senato, XVII legislatura, n. 260, disegno di legge che ha come prima firmataria Anna Finocchiaro (le firme successive sono dei senatori Zanda, Latorre, Casson e Pegorer), intitolato «Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione in materia di democrazia interna e trasparenza dei partiti politici». Salvo errore, in quel ddl è stato ripresentato tale e quale il testo del ddl n. 3160, presentato sempre a Palazzo Madama nella scorsa legislatura e sempre con la Finocchiaro come prima firmataria: era uno dei tanti progetti di legge presentati all’indomani del cd. “caso Lusi” ed era la copia carbone della pdl 4973, depositata invece alla Camera con primo firmatario Pierluigi Bersani.
[ad]Vale la pena perdere qualche riga per sottolineare che le proposte citate, al pari di altri ventisei progetti di legge ordinaria presentati nella XVI legislatura, avevano lo scopo di rimarginare un vulnus vergognoso, che si trascina dal 1948: l’inattuazione dolosa dell’articolo 49 della Costituzione. Un articolo in base al quale «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»: belle parole, certo, ma agli attori politici principali piacevano solo a metà. Lo spiegò bene nel 1995, in poche caustiche frasi, un profondo conoscitore del diritto parlamentare come Andrea Manzella: «Quando c’era la partitocrazia, tutti i partiti, nessuno escluso, sostennero che il “metodo democratico” riguardava solo la libera concorrenza elettorale fra di loro. Ma non doveva toccare la loro vita interna: i giudici non s’impicciassero, dunque, del “centralismo democratico” né “dei pacchetti di voti” né dei “tesseramenti fittizi” (intere contrade morte decidevano i congressi provinciali)». Morale, a tutt’oggi per la legge non c’è quasi nessuna differenza tra un partito e una bocciofila: sono semplici associazioni non riconosciute, per le quali non è previsto alcun sistema speciale di controlli. Di proposte di legge in materia, a dire il vero, se ne sono sempre presentate molte: per bene che andasse, completavano l’esame in commissione, ma nessuna è mai stata approvata definitivamente.
La pratica di ripresentare i progetti di legge che non hanno concluso il loro percorso alle Camere non è certo obbligatoria, ma è diffusissima: se i parlamentari che hanno elaborato un disegno di legge sono rieletti, è possibile che sia ripresentato nella nuova legislatura, per rimetterlo in circolo e sperare che sia la volta buona per approvarlo. Lo hanno fatto tutti i gruppi parlamentari, senza esclusione, a costo di sembrare assai poco originali: non a caso vari eletti del MoVimento 5 Stelle, a chi li accusava di avere ancora presentato pochissime proposte a differenza degli altri gruppi, rispondevano piccati (ma con ragione) che le loro erano proposte tutte originali, non copiate dalle legislature precedenti.
Tornando al ddl Finocchiaro reloaded, ci si può chiedere come mai si parli solo ora di quella proposta se era stata depositata identica nella vecchia legislatura. Il fatto è che, dopo il “caso Lusi”, di proposte di legge sulla democrazia interna ai partiti ne erano state presentate tredici, il progetto Finocchiaro era “uno dei tanti”, non ha dunque ricevuto molta attenzione dai media; se si aggiunge che, nel giro di poche settimane, la “legge sui partiti” aveva smesso di fare notizia, perché il Parlamento era riuscito ad approvare la legge che riduceva e rimodulava il finanziamento ai partiti, non ci si dovrebbe stupire che del ddl 3160 non si sia più saputo nulla. Finora, invece, di proposte di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione se ne contano solo quattro: una che precede il ddl Finocchiaro (a prima firma di Marco Di Lello), e altre due presentate dopo, sempre da eletti del Pd (Gerolamo Grassi e Giorgio Pagliari). Quella della Finocchiaro, dunque, è uno dei pochissimi progetti depositati e i firmatari degli altri sono meno noti, per cui stavolta la stampa lo ha intercettato più facilmente.
Ma dove sarebbe, dunque, lo “scandalo”? Il problema sarebbe l’articolo 6, comma 1, in base al quale «L’acquisizione della personalità giuridica e la pubblicazione dello statuto nella Gazzetta Ufficiale ai sensi dell’articolo 8 costituiscono condizione per poter partecipare alle competizioni elettorali». Tanto è bastato per far dire che la legge è contro i movimenti che non vogliono diventare partiti, movimenti che non solo non potrebbero accedere ai rimborsi elettorali (in base al comma 2 dello stesso articolo), ma non parteciperebbero nemmeno alle elezioni. Uno scandalo, se fosse vero. Se ci si limitasse a quell’articolo e a quel comma, si rischierebbe persino di crederci.
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La musica cambia – e molto – se si leggono anche gli articoli 1 e 2 dello stesso ddl: c’è scritto che «La presente legge reca disposizioni per la disciplina dei partiti politici, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione» e che «I partiti politici sono associazioni riconosciute dotate di personalità giuridica». Significa, come chiarito pure dal titolo dell’atto, che il progetto di legge in esame riguarda solamente i partiti politici. Non altre forme di aggregazione. E, a ben guardare, l’articolo 49 della Costituzione non parla minimamente di elezioni; allo stesso modo, l’articolo 48 che regola il voto non parla affatto di partiti. Su queste basi, dovrebbe accendersi la lampadina: ma sta scritto da qualche parte che alle elezioni possono partecipare soggetti organizzati diversi dai partiti?
[ad]La risposta – per fortuna – è sì. Basta prendere il decreto legislativo 361/1957, con cui viene approvato il Testo unico per l’elezione della Camera dei Deputati, su cui le varie riforme (Mattarellum e Porcellum inclusi) sono intervenute via via (per il Senato valgono norme analoghe). Lì si parla certamente di partiti, ma – e qui è il punto – a presentare liste possono essere anche «gruppi politici organizzati» e non c’è traccia, nel ddl Finocchiaro, di disposizioni che cancellino quelle parole dal testo; nelle norme che regolano le elezioni dei comuni, per dire, di partiti nemmeno si parla. Se la Costituzione non dice – né direbbe mai – che solo i partiti (che esistevano, come forma aggregativa, prima della Carta) possono partecipare alle elezioni, significa che altri gruppi hanno il diritto di prendervi parte: è il significato autentico della democrazia, che non può conoscere restrizioni (salvo casi eccezionali, come il divieto di ricostituire il partito fascista).
Ciò, peraltro, non significa che lo Stato non possa pretendere, proprio in ossequio a quello che la Costituzione prevede, che chi desidera darsi la forma stabile del partito debba sottoporsi a regole più stringenti per la partecipazione alle elezioni e, ad esempio, per godere di risorse pubbliche a titolo di rimborso. Del resto, se si prendono alcune disposizioni del citato decreto legislativo 361/1957 – ad esempio, l’articolo 14, sul deposito dei contrassegni elettorali, cioè dei simboli – si può scoprire che già lì alcune regole valgono per partiti e gruppi politici organizzati, mentre altre si rivolgono esclusivamente ai partiti: questo basta a dire che le regole dettate per i partiti non potrebbero comunque essere automaticamente estese ai gruppi organizzati (un po’ per ragioni di chiarezza di linguaggio, un po’ per salvaguardare la partecipazione alle elezioni).
Morale: se si legge bene, lo scandalo non c’è. Resta la pietra, cioè il disegno di legge. Che può ovviamente non piacere, essere ritenuto inopportuno per altri motivi: ad esempio perché manca una regolazione delle fondazioni politiche, in costante bilico tra la natura di think tank e di casseforti dei partiti o delle correnti. Certo, potrebbe rendersi necessario in un secondo momento dare un minimo di regole anche ai gruppi politici (per evitare che un partito scelga di “camuffarsi” da gruppo soltanto per non dover sottostare alle formalità previste dalla legge), ma allo stato attuale i movimenti non hanno di che temere.