Non c’è pace per l’Ilva di Taranto. Dopo il maxi-sequestro da 8 miliardi di euro, circa due volte il gettito dell’Imu, si è dimesso l’intero cda, a partire dal presidente Bruno Ferrante e l’amministratore delegato Enrico Bondi, gli uomini che erano stati scelti dalla proprietà per risanare la gestione dell’acciaieria pugliese e darle una prospettiva di vita.L’azienda è attualmente senza timone, in balìa degli eventi e con il fiato sempre più corto.
[ad]La decisione del Gip di Taranto Patrizia Todisco di porre sotto sequestro il patrimonio della Riva Fire, cassaforte finanziaria della famiglia Riva, in possesso dell’83% delle quote di Ilva rappresenta un colpo forse letale per i destini della fabbrica e dei suoi lavoratori. Al capitolo giudiziario segue, infatti, quello politico e sociale. Se il provvedimento di sequestro, contro cui i legali dell’azienda hanno già presentato ricorso d’impugnazione, dovesse essere confermato sarebbero 40mila i posti di lavoro a rischio tra addetti allo stabilimento e indotto, 24mila nella sola città pugliese. Il neoministro dello sviluppo economico Zanonato ha convocato un vertice d’emergenza per lunedì mattina al quale parteciperanno Bondi e il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. E’intervenuto, intanto, sulla vicenda anche il premier Letta che assicurando un impegno deciso e tempestivo del governo ha parlato di “disastro senza precedenti”, mostrandosi particolarmente preoccupato per gli effetti devastanti sul piano occupazionale che dal nuovo intervento giudiziario potrebbero derivare.
I sigilli agli 8 miliardi della casse della società facente capo a Emilio Riva, ex presidente del gruppo agli arresti domiciliari dal novembre scorso per disastro ambientale, e al figlio Fabio, ex vicepresidente in attesa di estradizione a Londra, sono stati “accumulati-scrive il gip nel motivare il provvedimento inibitorio, a danno dei tarantini, conseguendo un indebito vantaggio economico a scapito di popolazione e ambiente, non garantendo la sicurezza dei lavoratori all’interno del sito produttivo e ignorando le disposizioni dei custodi nominati dei giudici.”
Resta da capire adesso come questo mega –sequestro influirà sulla vita del ciclo produttivo della più grande acciaieria d’Europa che i giudici e il governo precedente avevano in qualche modo cercato di tutelare rispetto all’ondata di provvedimenti restrittivi contro i vertici dell’azienda. Il decreto salva-Ilva varato dal governo Monti nello scorso dicembre aveva cercato di ridurre l’impatto negativo sull’occupazione assicurando una certa continuità nella produzione dell’impianto, procedendo contemporaneamente alla bonifica delle aree maggiormente a rischio ( zone di smaltimento rifiuti pericolosi e inquinanti, vasche di sversamento delle scorie liquide e camini degli altoforni ) e alla ristrutturazione del sistema produttivo dell’impianto adeguandolo alle previsioni di legge.
Il nuovo provvedimento di confisca, però, fanno sapere dal quartier generale del gruppo tarantino ha “oggettivi effetti negativi sulle possibilità di continuare a produrre perché, pur non colpendo direttamente impianti o prodotti, priva l’azienda di beni strumentali indispensabili all’attività industriale”, risorse patrimoniali e immobiliari soprattutto, per questo tutelati dalla legge 231 del 2012, che aveva già superato il vaglio di legittimità della Corte costituzionale. Ancora più duro il giudizio di Federacciai secondo cui la decisione dell’autorità giudiziaria si pone come “una chiara volontà di chiudere l’impresa siderurgica in Italia.”
Scendono in campo anche i sindacati che preoccupati di probabili ripercussioni sulla già instabile condizione dei lavoratori chiedono garanzie al governo, prefigurando anche la necessità di assunzione di gestione diretta dello stabilimento di Taranto. Il dossier-Ilva e la connessa crisi di lavoro saranno, quindi, non solo al centro del tavolo di domani al ministero dello sviluppo economico ma anche cima alla lista dell’agenda di lavoro dei prossimi giorni del presidente del consiglio Enrico Letta e dell’esecutivo tutto.