E tracollo fu. Ma anche flop, débacle, crollo e altri sinonimi possibili. Non ci si è risparmiati per dare un nome al risultato ottenuto dal MoVimento 5 Stelle in questo turno di elezioni amministrative: la flessione riscontrata nel consenso della formazione legata a Beppe Grillo ha rappresentato probabilmente uno dei dati più commentati ieri. Vale forse la pena, allora, fermarsi un attimo a riflettere e chiedersi: è stato davvero così?
[ad]Certo, a guardare soltanto i numeri, avulsi da ogni contesto, sembrerebbe facile dire di sì: il 12,43% ottenuto a Roma dal candidato sindaco Marcello De Vito (e il vicino 12,82% del MoVimento) è meno della metà del 27,27% raccolto a febbraio alle elezioni politiche sul territorio comunale e, in fondo, è distante anche dal 20,09% del «cittadino» candidato alla guida della Pisana, Davide Barillari (ma per il simbolo alle regionali aveva votato il 16,84%). Il calo, inutile negarlo, c’è. Parlare di flop, tuttavia, non sembra corretto se prima non ci si è chiesti se ad essere “anomalo” è il risultato odierno, oppure quello delle elezioni politiche di febbraio.
A guardare attentamente il contesto, sembra che l’ultima soluzione sia quella più fondata. Molti analisti (vale per chi ha effettuato ricerche di mercato come Nando Pagnoncelli o per esperti di dinamiche socio-partitiche come Piergiorgio Corbetta) hanno riconosciuto che buona parte dei voti ottenuti dalle liste di Beppe Grillo sono stati decisi negli ultimi giorni, probabilmente sulla scorta di ragionamenti che intendevano premiare una formazione che nell’ambito delle elezioni politiche era “nuova” ma aveva già fatto parlare di sé a livello locale; non è da escludere che l’atteggiamento tenuto dai partiti maggiori in campagna elettorale, nonché alcuni altri episodi che possono aver fatto apparire il M5S come soggetto “sotto attacco” (si pensi anche solo al simbolo “clone” presentato al Viminale a gennaio) e le immagini – circolate essenzialmente sul web – delle piazze piene dello «Tsunami tour» di Grillo abbiano convinto più di qualcuno ad andare (o a tornare) a votare per i 5 Stelle, magari abbandonando forze più tradizionali che però in quel momento non sembravano abbastanza convincenti.
Se è così, non c’è da stupirsi che quella parte di voti (che Corbetta ha individuato circa in un 10%) sia più “volatile” e possa aver cambiato obiettivo in fretta oppure – visto il tasso di astensionismo – abbia ripreso a disertare le urne: poco conta che lo abbiano deciso per le polemiche legate alla diaria, per non avere condiviso la scelta di non partecipare al governo del paese (se non da protagonisti) o per altre ragioni, di fatto quei consensi sarebbero stati i primi a prendere altre vie. A quanto pare, è ciò che è accaduto. Il 16-17% che si ottiene sottraendo quel 10% di consensi di cui si diceva prima è decisamente più vicino al risultato ottenuto in molti comuni in questi giorni: la differenza percentuale che ancora residua può essere la misura del calo effettivo di consensi, non la si può negare, ma il fenomeno a questo punto ha ben altre dimensioni.
Che il “nucleo duro” di consenso del M5s sia aumentato nel tempo, in ogni caso, è indubitabile. Per dire, alle elezioni regionali del 2010 il MoVimento 5 Stelle (alla prima apparizione “ufficiale” con il simbolo in uso tuttora) aveva ottenuto il 6%, che saliva al 7% per il suo candidato alla presidenza della Regione, Giovanni Favia: già allora si parlò di una sorta di “miracolo”, una presenza decisamente superiore alle aspettative, ma da allora i numeri ottenuti dagli attivisti a 5 Stelle sono aumentati dappertutto. A parziale smentita di quanto detto prima, si potrebbe citare il caso di Parma 2012, in cui – prima di imporsi sul candidato del centrosinistra Vincenzo Bernazzoli al secondo turno – Federico Pizzarotti arrivò al ballottaggio sfiorando il 20%, molto di più di quanto ottenuto ora in tante consultazioni locali dal MoVimento: non si può dimenticare tuttavia che in quell’occasione il centrodestra era reduce da uno scandalo che aveva portato alla fine prematura della consiliatura (e infatti il Pdl era uscito dalle elezioni con le ossa rotte, senza toccare nemmeno il 5%) e verosimilmente era stato facile per il M5S porsi, in una chiave legalitaria, come forza realmente alternativa al passato e dunque in grado di attirare voti.
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A Roma non è andata così: gli scandali ci sono stati, ma non della stessa portata, dunque il “traino” è stato ben diverso; altri fattori di “disaffezione” verso il MoVimento, legati essenzialmente a dinamiche nazionali, possono aver sterilizzato del tutto il vantaggio legato alle battaglie su trasparenza e legalità.
[ad]Un flop, dunque? Probabilmente no. Sembra più significativo, ad esempio, che in gran parte dei comuni in cui si è votato – anche dopo i tagli alla consistenza dei consigli comunali operata nella legislatura precedente – il MoVimento sia riuscito a eleggere propri rappresentanti, anche in località in cui il numero di attivisti fino alle elezioni politiche di febbraio era pressoché pari a zero. Certamente in quella formazione politica ci sarà qualcosa da rivedere (come una parte della stessa base sembra suggerire in queste ore), magari per cercare di far arrivare davvero nell’urna i voti di coloro che hanno riempito le piazze; qualunque cosa accada nel movimento, tuttavia, avverrà con una presenza sul territorio nazionale decisamente superiore rispetto a un passato anche recente. E – non lo si dimentichi – con un consenso che resta consistente ma si adatta meglio alla posizione di “controllori” che gli eletti del M5S continuano tuttora a rivendicare.