Lega Nord dopo la batosta elettorale. Se il M5s di Beppe Grillo è il primo sconfitto di questa tornata elettorale, la Lega è probabilmente, per pesantezza del colpo incassato, il secondo.
[ad]Il Carroccio, dopo il pesante arretramento subito alle elezioni politiche di febbraio, quando si era attestato su un modesto 4% a livello nazionale ma aveva comunque tenuto nelle regioni del nord, sconta un ulteriore assottigliamento della base del proprio consenso elettorale.
Confrontare risultati di elezioni così diverse come le politiche e le amministrative è sempre operazione scivolosa e non completamente corretta, ma qualche considerazione è comunque lecito farla, a maggior ragione che, proprio per il carattere locale del voto di domenica e lunedì scorso, il flop elettorale rischia di aprire crepe profonde in un partito che ha fatto del territorio e della rappresentanza degli interessi del blocco sociale del nord la propria ragion d’essere, il fondamento ultimo e irrinunciabile della propria mission politica.
Nei sei centri capoluogo del settentrione in cui si è votato per il rinnovo dell’amministrazione comunale l’alleanza di centrodestra è ovunque indietro, Sondrio e Vicenza sono state vinte dal centrosinistra già al primo turno e le liste della Lega sono quasi dappertutto nel lombardo-veneto ormai sotto la soglia psicologica del 10%.
L’elevatissima astensione sembra aver prosciugato il bacino elettorale tradizionalmente più consistente per le camicie verdi, nonostante lo sgonfiamento del fenomeno grillino che già alle politiche aveva sottratto messe di voti, tra gli elettori del nord-est in particolare.
Per un’analisi definitiva occorrerà aspettare il secondo turno con ballottaggi in città importanti e dall’alto profilo simbolico come Brescia, seconda città lombarda, o Treviso, (ex) roccaforte del leghismo più duro e regno del sindaco-sceriffo Gentilini costretto ad un difficilissimo ballottaggio dal candidato del Pd Manildo.
Inevitabile, soprattutto in caso di ulteriore dèbacle nelle urne che si apriranno tra due settimane, appare adesso l’apertura di una resa dei conti nelle stanze di via Bellerio, dove il segretario Maroni dovrà provare a sbarrare la strada ad un ritorno in auge della componente bossiana, sbaragliata ed emarginata dai vertici del partito dopo la scoperta del sistema familistico con cui il Senatùr gestiva il partito, gli investimenti in Africa, le lauree albanesi del figlio Renzo catapultato in Consiglio regionale della Lombardia e i magheggi nell’uso dei fondi pubblici del tesoriere Belsito.
La sconfitta patita potrebbe rappresentare il pretesto giusto per un rimescolamento della cariche di segretari regionali, per ora presidiate tutte da fedelissimi dell’ex ministro dell’Interno, con Salvini in Lombardia, Tosi in Veneto e Cota in Piemonte.
Già convocato per venerdì un consiglio federale che si annuncia infuocato e che potrebbe aprire scenari inediti per le sorti future di un partito che dopo la scelta di non sostenere dall’interno il governo Letta, ma neppure di fare le barricate contro l’esecutivo delle larghe intese, rischia di rimanere in una sorta di terra di mezzo politicamente assai poco vantaggiosa.
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[ad]Non sembrano più far presa tra il popolo delle partite iva, ridotto allo stremo dalla tenaglia della pressione fiscale alle stelle e dei consumi stagnanti, neppure le proposte di trattenere sul territorio il 75 % delle tasse pagate, cavallo di battaglia elettorale del segretario Maroni, mentre sempre più debole si rivela ormai pure quel federalismo fiscale depotenziato dal governo Monti e difficilmente rinvigoribile da posizioni di opposizione a Roma.
Proprio nella fase in cui si realizza il sogno leghista della macroregione settentrionale tutta governata da esponenti del Carroccio rischia, insomma, di consumarsi la crisi più nera di un partito che non ha ancora smaltito lo choc della brusca caduta del suo fondatore-capo carismatico e ormai si trova privato dell’arma della minaccia secessionista per un nord sempre più provato dalla perdurante crisi economica.