Prosegue il botta e risposta a distanza, dalle colonne dei quotidiani e dalle pagine web dei blog, tra Beppe Grillo e Stefano Rodotà.
Finita la luna di miele tra i due, lontanissimi i tempi della designazione, con tanto di cartelli e cori nelle piazze, del giurista a unico possibile candidato alla presidenza della Repubblica da parte dei cinque stellati.
Dopo l’intervista post voto pubblicata sul Corriere della Sera in cui Rodotà, analizzando il flop elettorale del Movimento, esortava il capo politico ad abbandonare la linea del “tutti a casa” e del “no a tutti”, e a concedere maggiori spazi di libertà al lavoro dei suoi parlamentari, era arrivata la risposta altrettanto piccata del leader del MoVimento all’”ottuagenario resuscitato dalla rete”.
Adesso si completa il secondo round dello scontro frontale. Questa volta in un’intervista all’Unità, l’ex garante della privacy ha bollato come “inaccettabili” gli insulti di Grillo e ha respinto seccamente l’accusa di irriconoscenza politica ribattendo che i suoi non erano consigli ma “semplici opinioni”, e che “le critiche vanno accettate perché capita a tutti di riceverle”.
Insomma un invito di Rodotà a Grilo all’umiltà dopo la scoppola elettorale subita all’ultima tornata delle amministrative. Un’altra stoccata al leader grillino, il professore la lancia poi sul tema strategico del rapporto con gli eletti e sull’attacco di Grillo alla libertà di mandato. Rivela Rodotà. “ Subito dopo l’elezione per il Quirinale sono andato a discutere con il gruppo dei parlamentari del M5S, chiedendo loro se intendevano gettare al vento i voti ricevuti e la libertà dei singoli in nome del portavoce? “
Già allora si registravano posizioni divergenti, ma comunque la questione era avvertita come aperta e irrisolta anche da alcuni eletti grillini. Dal rischio di deriva populista e di sterile antipolitica connesso all’involuzione del fenomeno movimentista, Rodotà non esita a passare a ragionare a 360 gradi di attualità politica, dal nodo intricato delle riforme istituzionale, alla crisi dei partiti.
Sul tema della grande riforma dell’architettura istituzionale della Repubblica e della riscrittura della seconda parte della Costituzione Rodotà si definisce critico e preoccupato sia per il metodo che per i contenuti di cui sinora si è discusso. Contrario a qualsiasi idea di convenzione o comitato di esperti, Rodotà si dice convinto che il luogo più idoneo ad affrontare una doverosa manutenzione della Carta rimanga il Parlamento.
Passando al merito delle proposte in esame non esita a rilanciare il suo modello di assetto politico-istituzionale, molto vicino alla soluzione tedesca: legge elettorale mista con metà di collegi uninominali e metà di proporzionale con sbarramento in modo da garantire rappresentanza e al contempo governabilità, fine del bicameralismo perfetto e diversificazione dei poteri delle Camere (a cominciare dal voto di fiducia ), trasformazione del presidente del consiglio in un vero cancelliere con poteri rafforzati e velocizzazione legislativa grazie anche ad una profonda revisione dei regolamenti parlamentari.
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[ad]Il nemico del disegno riformista del giurista è quello, però, dell’altro grande modello in discussione che guarda a Parigi più che a Berlino e che dovrebbe condurre, nelle intenzioni dei suoi sostenitori, non ad un parlamentarismo razionalizzato ed efficiente, ma ad una versione italiana del semipresidenzialismo francese.
Per Rodotà la riforma in senso presidenziale in un contesto come quello italiano viziato da “scarsa lealtà alle istituzioni repubblicane e privo di delimitazione verso l’estrema destra” porta con sé il rischio del “rafforzamento del populismo e del decisionismo leaderistico” che tanto male hanno fatto al paese in questi anni, a partire dalla riforma elettorale in senso maggioritario del 1993, presentata come “panacea di tutti i mali e che, viceversa, ha provocato l’affermazione di un bipolarismo selvatico e la proliferazione della corruzione e della paralisi di governo”.
Una considerazione conclusiva il giurista la dedica, poi, al tema dell’eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti, e anche su tale aspetto emergono le perplessità e i timori. Il rischio è, infatti, quello dell’”americanizzazione” della politica, dove a farla da padroni sono le lobby e la logica del denaro è preminente. Lo scenario peggiore è secondo Rodotà quello in cui “senza partiti forti e in grado di operare la democrazia si estingue a vantaggio di ricchi e potenti”. Un pericolo dal quale l’Italia pare essere non completamente esente.