Turchia: da Istanbul ad Ankara, è rivolta contro il decisionismo di Erdoğan
Nuove tensioni in Turchia, a distanza di sei anni dall’ultima e imponente manifestazione di piazza. Se nel 2007, infatti, i manifestanti protestarono contro la candidatura alla presidenza della repubblica di Abdullah Gül (AKP) – che ottenne comunque l’incarico –, oggi il bersaglio è il primo ministro Erdoğan, “colpevole” di aver commissionato la costruzione di un nuovo centro commerciale e di una moschea a Gezi Park, vicino piazza Taksim, una delle aree più verdi di Istanbul. L’occupazione pacifica della zona interessata dai lavori, che ha impedito l’inizio delle operazioni della ditta incaricata, è sfociata in violenza non appena la polizia ha cercato di sgomberare l’area. Il governatore della provincia di Istanbul Hüseyin Avni Mutlu ha fatto sapere che il bilancio di questa tre giorni di proteste è di 12 feriti e 63 fermi, per i manifestanti, invece, sono rimaste contuse circa mille persone. Stamattina, il presidente della Repubblica turca ha ordinato alle forze dell’ordine di abbandonare la piazza, un segno di distensione in un clima quanto mai rovente e, soprattutto, in forza di un’ingiunzione della Corte di Istanbul che ha ordinato l’interruzione dei lavori. È stata, inoltre, aperta un’inchiesta che farà luce sugli incidenti avvenuti tra polizia e manifestanti.
[ad]Ma, letta da un’altra prospettiva, la situazione nasconde un malcontento di fondo prettamente politico: sembra essersi ripresentata l’annosa contrapposizione nazionale tra l’anima laica del paese – legata indissolubilmente alla figura di Mustafa Kemal “Atatürk”, padre della patria – e quella confessionale di fede musulmana, ben rappresentata dall’attuale partito di governo AKP. Tra l’altro, Erdoğan ha annunciato la ricostruzione, in quell’area, della vecchia caserma dell’artiglieria ottomana, da adibire a museo. Insomma, il richiamo simbolico alla memoria storica del sultanato non è stato condiviso dai sostenitori della riforma dello stato di Atatürk. A riprova di ciò, il leader del principale partito all’opposizione – il Partito repubblicano del popolo (CHP), di stampo kemalista – Kemal Kiliçdaroğlu ha appoggiato la protesta cittadina, che intanto si è propagata in tutto il paese: ad Ankara, è stata organizzata una marcia verso il Parlamento e la sede del governo; nella provincia di Izmir (conosciuta come Smirne), circa 700 contestatori hanno danneggiato auto e negozi nella centralissima piazza Basmane, così come a Izmit, grande complesso industriale sul mar di Marmara. Il totale è di 900 arresti in 90 città del paese.
Proprio nel 2007, parte dell’opinione pubblica contestò alcune scelte del governo Erdoğan, che contrastavano con il principio di laicità della nazione, ormai rimesso in discussione dai vertici governativi: legislazione pro-life sull’aborto, contro il consumo di alcolici e sulla libertà di indossare il velo negli edifici pubblici. Questa volta, però, l’esercito – baluardo della “dottrina kemaliana” – non si è ancora esposto sulle violenze in piazza.
Tuttavia, bisogna sottolineare un altro aspetto fondamentale che riguarda il sorprendente aumento delle opere pubbliche commissionate da Erdoğan negli ultimi anni: il mese scorso è stata posta la prima pietra sul sito in cui verrà costruito il terzo ponte sul Bosforo; sulle rive del mar Nero è prevista l’installazione di una centrale nucleare a Sinope. Inoltre, il primo ministro turco – ex sindaco di Istanbul – non ha mai nascosto il desiderio di trasformare la sua città in una moderna capitale europea, dotandola dell’aeroporto più grande del continente e di nuovi edifici, in sostituzione di quelli fatiscenti.
In Turchia ritorna quindi lo spettro del revisionismo storico-religioso dell’AKP, mai del tutto sopito. Eppure non si deve tralasciare il lato economico della vicenda: il paese è ormai un’economia in forte crescita, investita ogni anno da enormi flussi di capitali, che stanno cambiando il volto (e la mentalità) dello stato peninsulare. E stando alle sue parole, Erdoğan non intende cedere neanche questa volta alle rimostranze popolari, col rischio reale che lo scontro tra governo e manifestanti possa degenerare nei prossimi giorni.