“Nel corso di questo processo ho avuto l’impressione di ingenerare un certo qual fastidio nei confronti dei giudicanti”. La strategia difensiva di Niccolò Ghedini, avvocato difensore di Silvio Berlusconi nel cosiddetto “processo Ruby” – i capi di imputazione sono concussione e prostituzione minorile – punta al disconoscimento del collegio giudicante. Una bomba ad orologeria, quella lanciata dall’avvocato padovano e stretto collaboratore dell’ex presidente del Consiglio, che sceglie la strategia della delegittimazione della Corte milanese attraverso l’accusa di “prevenuti” rivolta ai giudici.
[ad]Una accusa di faziosità espressa anche in seguito nel corso della arringa, quando Ghedini sottolinea una “vicinanza culturale” tra pm e collegio. Riguardo alla richiesta di condanna di sei anni di carcere al senatore Berlusconi, formulata dal pubblico ministero Ilda Boccassini, l’avvocato e parlamentare Pdl liquida con un “stratosferica e straordinaria” l’entità della condanna richiesta dalla pubblica accusa.
Ghedini ha chiarito che dal suo punto di vista Berlusconi non aveva coscienza della “bugia” raccontatagli da Karima El Mahroug, del fatto che non fosse la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak. A sostegno di ciò Ghedini porta proprio l’incontro ufficiale tra Berlusconi e Mubarak: nel corso di un pranzo comune l’allora Presidente del Consiglio nominò la ragazza proprio pensando che Mubarak la conoscesse, a dimostrazione, secondo l’avvocato, della buona fede del Cavaliere.
Ghedini ha poi insistito sostenendo che nessuna delle ragazze chiamate a testimoniare dall’accusa ha mai partecipato alle “cene di Arcore” nel periodo contestato. E nessuna di loro avrebbe chiesto soldi a Berlusconi in cambio di rapporti sessuali. Ancora, per Ghedini anche la concussione non esiste, in quanto Berlusconi si sarebbe adoperato con la Questura milanese non per ottenere la liberazione di Ruby ma semplici informazioni. Ghedini ha sostenuto che non si è trattato di concussione, ma di “azioni umane non correlate da alcuna malizia”. In conclusione, l’avvocato difensore ha chiesto l’assoluzione dell’imputato Berlusconi perché “il fatto non sussiste”.
La scelta di porre dubbi sull’imparzialità del collegio chiamato ad emettere la sentenza di un processo non può stupire alla luce della campagna di delegittimazione della magistratura portata avanti, nel corso degli anni, dallo stesso Berlusconi in campo politico. Ghedini a sua volta ha sempre sposato, a ragione o torto come sostenuto dallo stesso durante l’arringa, questa linea. Rimangono tuttavia alcuni punti fermi alla luce del suo ruolo di senatore della Repubblica, parte delle istituzioni, più precisamente di un potere dello Stato, quello legislativo, concorrenziale, ma sullo stesso piano, del potere giudiziario. Una responsabilità che Ghedini ha scelto di accettare nel momento in cui ha scelto di rimanere in Parlamento e fregiarsi del titolo di senatore, che vale anche nell’esercizio della professione. L’atto di delegittimazione della corte giudicante – e implicitamente della futura sentenza – fornisce evidentemente un alibi artefatto alla possibile condanna. Ma è anche un attacco da parte di un esponente di un potere dello Stato nei confronti di altri esponenti di un altro potere dello Stato. Che poi l’attività parlamentare di Ghedini sia stata, negli anni passati, statisticamente irrilevante è altro discorso: il sito OpenParlamento, da tempo impegnato nella rilevazione dell’attività parlamentare, dimostrò che, al 27 maggio 2011, Ghedini era il secondo deputato più assenteista dell’intero Parlamento in quella legislatura e il deputato col minor indice di produttività.